Cerca
Cerca
Edicola digitale
+

Un intellettuale completo.

default_image

  • a
  • a
  • a

Avevacominciato giovanissimo, nel 1946, come critico cinematografico nella sua Trieste, continuando in quella militanza fino al suo ultimo giorno, dopo due tappe particolarmente significative, nel 1976 quando Eugenio Scalfari lo chiamò a «Repubblica» e nel 1989 quando Ugo Stille lo chiamò al «Corriere della Sera». Attento al cinema, alla sua evoluzione, al cammino dei suoi autori, italiani e stranieri, mietendo specialissimi consensi anche quando, negli anni Settanta, ideò per «Panorama» le «schede brevi», delle recensioni che potevano essere scambiate per critiche cinematografiche in pillole e che invece, in poche righe, a tal segno spaziavano all'interno di un film, analizzandone forme e contenuti, da ottenere l'ammirazione più viva di Fellini, pronto ad additarmele come «il modo più intelligente di far critica». Poi arrivò le televisione e Kezich non solo fece il viso delle armi al nuovo mezzo, analizzandone anzi con felice dottrina il suo specifico (basterebbe un suo saggio su «Sipario» nel '60 intitolato «Cinema e televisione»), ma prima da Milano poi a Roma mostrò di sapersene impadronire in una veste inattesa, quella di produttore e presto anche come autore, specie quando cominciò ad ispirarlo l'opera del suo grande concittadino Italo Svevo («Una burla riuscita», «La coscienza di Zeno»), cooperando quasi subito con i nostri autori più importanti del momento, da Mario Rigoni Stern e Ermanno Olmi («Il bracconiere», «I recuperanti»), ai fratelli Taviani («San Michele aveva un gallo». Da lì, sostando nel cinema come sceneggiatore subito premiato con un Nastro d'argento («Venga a prendere il caffè da noi», di Lattuada dal romanzo di Chiara, quindi «La leggenda del Santo bevitore» di Olmi dal romanzo di Roth, Leone d'oro a Venezia), il passaggio al teatro che lo vide subito acclamato dalla critica e dal pubblico. Sia quando, con i suoi testi, si rifaceva a testi altrui (ancora una volta «La coscienza di Zeno» «Bouvard e Pécuchet», «Il fu Mattia Pascal»), sia quando ricreava con precise ispirazioni temi e figure già note, l'anarchico Bresci in "W Bresci", Goldoni, con Maurizio Scaparro, in "Carlo Goldoni", sia quando si inventava una biografia apocrifa di Svevo («L'ultimo carnevàl») o nel «Sosia» voltava in commedia nera le vicissitudini di quel Michail Golovani, un attore georgiano scritturato per far da sosia a Stalin. Dalla televisione e dal teatro, alla letteratura, anche se lui, modesto per indole non accettava, neanche parlando con me, di essere definito «scrittore». «Sono solo uno "scrivente"», diceva. Quanto fosse scrittore vero, invece, basta rileggere anche oggi quel suo «Uomo di sfiducia» in cui, con una serie di felicissimi racconti, svelava i retroscena dell'ambiente del cinema, o quel recentissimo suo romanzo epistolare, «Una notte terribile e confusa» che, ambientato nuovamente a Trieste, aveva risvolti e snodi molto prossimi a una scoperta autobiografica. Ma ci lascia anche biografie ragionate di grandi personalità del cinema, tra le più puntuali (e illuminanti) quella su Fellini e, appena ieri, quella su Dino De Laurentiis scritta insieme alla sua seconda moglie, Alessandra Levantesi, anche lei dedita con impegni sicuri alla critica cinematografica. Oggi, congedandomi da lui con profonda commozione, mentre saluto un amico da oltre sessant'anni e un collega illustre, ripenso alla sua opera. Certo che resterà. E che guiderà ancora tutti noi.

Dai blog