Il vero Almirante uno più a sinistra che a destra
Giorgio Almirante, scomparso nel 1988 a settantaquattro anni, fu un leader politico più noto che conosciuto, come frequentemente avviene alle personalità che dividono il campo. Per esempio, era storicamente più a sinistra che a destra. La prima sistematica inchiesta biografica su di lui è di Vincenzo La Russa, che s'è già segnalato per altri ritratti critici, da quello di Scelba a quello di don Sturzo e a quello di Fanfani. La Russa (avvocato, già parlamentare democristiano) è capace d'una scrittura ironica, lieve, piacevole. Ma in veste di biografo è asciutto e distaccato. S'è affidato all'eloquenza di fatti, di notizie raccolte in archivi o da testimoni, o da libri e giornali. Così, è giunto in vetrina un libro serio, importante, che arricchisce la bibliografia sull'«opposizione nazionale» e insomma sul Movimento Sociale Italiano, fondato nel 1946 e rigeneratosi nel 1995 in Alleanza Nazionale. Dunque: «Giorgio Almirante. Da Mussolini a Fini», Mursia Editore, 178 pagine, 17 euro. Oggi c'è molta considerazione intorno alla figura di Almirante e questo è spiegato da parecchie ragioni, ma soprattutto dall'ormai quindicennale scomparsa, in Italia, di quell'assetto politico — di derivazione storico-internazionale - e impedì ad Almirante, come anche agli altri leaders del Msi, di proporsi in par condicio al giudizio popolare. Già quando Berlinguer disse di accettare l'«ombrello della Nato», quell'assetto non era più così solido. Tanto che poi, nel 1984, Almirante potè compiere un gesto che un po' d'anni prima sarebbe stato impensabile: recarsi alla camera ardente di quel segretario del Pci. (Il gesto fu poi ricambiato, e infatti Pajetta rese omaggio al feretro di Almirante). La ruota gira. Appunto a tre lustri — più o meno - dall'ammainabandiera del Pci e dal conseguente dissolvimento della Dc, cioè delle due forze che avevano tenuto in piedi e in efficienza quell'assetto per quasi mezzo secolo, può sembrare surreale lo spettacolo, con frequenti repliche, di superstiti capi di Governo e di ministri dell'Interno della «Prima Repubblica» che tributano riconoscimenti alla figura del leader missino. E altrettanto colpisce la crescente obiettività dei giornali, gli stessi che, raccogliendo gli input dei palazzi, intrattenevano i loro lettori con il noir a puntate del fascismo alle porte, dello «scontro fisico» e del manganello sotto il doppiopetto. Almirante finì persino nei titoli dedicati a una strage ferroviaria, un bel salto per chi ne aveva già avuti come «fucilatore». Ma ora, pare impossibile, c'è persino il rischio che il suo nome, la sua memoria, patiscano di eccedenza. E proprio a ridurre questo rischio, se non a bloccarlo, giunge l'inchiesta biografica di Vincenzo la Russa, seria e senza ridondanze. Almirante era di una famiglia di attori che andava da una città all'altra già nella prima metà dell'Ottocento. Il suo cognome è la versione spagnola di ammiraglio, e le radici più profonde portano a Napoli. Era nato però, per caso, a Salsomaggiore, dove i suoi davano recite. Più a lungo visse a Torino, dove ultimò il liceo. Mentre studiava lettere a Roma, si avviò al giornalismo nel quotidiano «Il Tevere», diretto da Telesio Interlandi: colui che fondò poi «La difesa della razza» e lo volle con sé, redattore. Accadde quello che accadde, Almirante andò nella Repubblica Sociale Italiana divenendo capo di gabinetto del ministro della Cultura Popolare, Mezzasoma. Ma per tutta la vita gli fu imputato specialmente questo: essere stato accanto a Interlandi in quegli anni. E bisognerebbe aggiungere in quell'Italia dove pochi — e quanti? — ebbero il coraggio di rischiare non dico la vita, ma soltanto la carriera, manifestandosi contrari all'infamia della discriminazione razziale. Si scoprì, dopo la guerra, che proprio nella Rsi, Almirante, rischiando, aveva protetto un ebreo. Ma ciò valse a poco, o a nulla. Alla fondazione del Msi, nel '46, fu convenuto che Almirante ne reggesse la segreteria, ma nel senso che ne tenesse le carte. Dei fondatori, l'unico che avesse un po' di storia e qualche titolo per guidare la barca era Pino Romualdi, costretto però alla clandestinità. Ma Almirante cominciò a praticare una sua specialità, l'oratoria politica di piazza. Il venerdì, il sabato e la domenica treni e corriere lo portarono ovunque. Onde la grande, diffusa popolarità e la conseguente presa della leadership, che poi perdette, riconquistò e tornò a perdere: e l'avrebbe perduta per sempre se il suo vincente rivale, Arturo Michelini, un politico abile e lungimirante, non fosse stato battuto dal cancro a sessant'anni, nel 1969. Che cosa avrebbe potuto fare di più Almirante? Posso dire che alcuni giovani intellettuali della sua parte gli consigliarono, a metà anni Settanta, di «smarcarsi, di rompere gli schemi, di sorprendere gl'italiani con posizioni nuove». Almirante ascoltava con un filo di sorriso. Non avrebbe potuto, la sua gente l'avrebbe abbandonato, rifluendo nel neofascismo più becero ed eterodiretto. Il passato era ancora troppo vicino.