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Tiberia de Matteis «Ero un bambino che amava le parole» scrive il magistrato-romanziere Gianrico Carofiglio nel suo ultimo libro "Né qui né altrove.

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Avvicinatoal genere del legal thriller per la sua opera d'esordio "Testimone inconsapevole" (Sellerio, 2002) preferisce considerare la sua vocazione letteraria come desiderio di raccontare storie piuttosto che aderire al diffuso orientamento dei gusti del pubblico verso il giallo, il poliziesco o l'inchiesta. Una creatività destinata a proseguire: in uscita a gennaio un nuovo romanzo e quasi contemporaneamente una raccolta di racconti e a un libro di saggistica che racchiude due lezioni in difesa della purezza comunicativa del linguaggio da ogni forma di manipolazione. Il Premio Bancarella, da lei vinto nel 2005 con "Il passato è una terra straniera" e da poco assegnato a "Il suggeritore" di Carrisi, fa ipotizzare una tendenza dei lettori a privilegiare il thriller. Si riconosce nel filone? Quando ho scritto "Testimone inconsapevole" non pensavo a una storia di genere ma a una sorta di romanzo di formazione, una storia di caduta e riscatto personali che si specchia nella vicenda processuale. Ciò detto non nego che alcuni miei libri - e fra questi "Testimone inconsapevole" - possano rientrare nella categoria del suspence giudiziario, che è diverso dalla detective story. Quest'ultima ha a che fare con la domanda: "Chi ha commesso il delitto?". Il legal thriller riguarda invece la domanda: l'imputato verrà assolto o condannato? Sua madre è la scrittrice Enza Buono, un viatico alla letteratura? Essere cresciuto in una casa piena di libri influenza e non è senza significato se madre e figlio percorrono, anche se con modalità diverse, gli stessi sentieri narrativi. Essere scrittori dipende da una mistura di patrimonio genetico, indole personale e circostanze. Ma appunto, le circostanze sono fondamentali. Sono convinto che esistano tanti scrittori di talento che non trovano la forza o l'opportunità per cominciare. E lei quando ha deciso? Nel 2000 ho attraversato un periodo di crisi personale: mi chiedevo se avessi realizzato quello che desideravo e in che modo. La scrittura mi ha permesso di guarire e oggi considero quel periodo una fortuna. Il mio primo romanzo è un'autobiografia metaforica di quella guarigione. Ha pubblicato un saggio dal titolo "L'arte del dubbio": è il suo modo di affrontare la vita? Direi di sì. Bisogna sottoporre al dubbio metodico tutti i dati dell'esperienza e solo dopo prendere le decisioni. Difficile amministrare la giustizia in Italia? Forse più di prima. La situazione del nostro Paese è una delle più gravi fra le democrazie occidentali a causa di norme disorganiche con interventi continui e contraddittori per esigenze di politica-spettacolo, di carenza di mezzi e del conservatorismo culturale delle categorie dei giuristi. Le polemiche mediatiche limitano l'indipendenza di giudizio? Dipende dal temperamento personale. Non dovrebbe accadere. Non è bene che i processi si facciano sui giornali o in tv. Si sente più giudice o scrittore? Mettiamola così: se mi fosse imposto di scegliere un solo lavoro, sceglierei la scrittura. Mi piace pensare che le mie storie potranno far commuovere o ridere i lettori. E poi pensare alle parole come strumenti affilati.

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