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Luigi Sturzo, il don-politico che ci insegna ancora oggi

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Raramente gli anniversari coincidono con l'attualità. Ricordare Luigi Sturzo a mezzo secolo dalla morte, avvenuta l'8 agosto del 1959, vale a rimeditare il suo pensiero politico alla luce dell'eredità di una gigantesca questione morale che lui seppe prevedere ed analizzare quando sembrava eccentrica perfino a chi gli era più prossimo. Sturzo, infatti, svelò impopolari verità, soprattutto dopo il ritorno dall'esilio inglese ed americano, a cui dal 1924 l'aveva costretto il fascismo cui non fece mai sconti, mettendo a nudo le contraddizioni del neonato regime repubblicano: un riconoscimento doveroso che oggi nessuno gli può negare, neppure coloro che, nel suo stesso partito, lo avversarono ritenendolo troppo "conservatore" e gli "imputavano" l'avversione all'unità politica dei cattolici sulla quale la Dc costruì le sue fortune. Sturzo, al riguardo, confessò a Gabriele De Rosa raccontandogli la fondazione del Partito popolare nel 1918: "Io non mi proponevo di realizzare l'unità politica dei cattolici. La mia fu soltanto una corrente di cattolici che fondò un partito in cui potevano militare anche i non cattolici".   In questo spirito, nel maggio 1952, prese l'iniziativa, avversata da De Gasperi, ma condivisa da Pio XII, di di varare un "listone" composto da Dc, liberali, socialdemocratici, repubblicani, monarchici e missini per conquistare il Campidoglio, in opposizione ad una lista civica di sinistra capeggiata da Francesco Saverio Nitti. Fallì, ma sette anni dopo, sul Giornale d'Italia, scrisse: "Ho tollerato in silenzio, fino ad oggi, l'insinuazione circa l'operazione Sturzo perché sono abituato ad assumermi le mie responsabilità; per parlarne ho preso l'occasione della intesa leale di Segni con le destre, a sette anni di distanza, proprio per far capire a coloro che non vogliono capire, servi sciocchi di Saragat e di Nenni, la necessità che la Dc riprenda il suo posto di Centro senza alcun complesso di inferiorità, lo stesso che condusse Zoli a rifiutare i voti missini, per poi riprenderli perché il Presidente della Repubblica li reputava voti validi: sfido io; si trattava di voti dati da eletti dal popolo e non degli scugnizzi di Napoli o dei barboni di Milano, né dei beceri di Firenze". Parole chiare almeno quanto quelle che ripetutamente pronunciò contro lo statalismo e la partitocrazia, degenerazioni della democrazia che immaginava compiuta in riferimento alla centralità della persona ed ai valori solidaristici e nazionali. Esempio più eloquente di statalismo per Sturzo era l'azione sviluppata da Enrico Mattei, padre-padrone dell'Eni, contro il quale non fu mai tenero considerando il suo attivismo politico improprio nella gestione di un ente di Stato. "Non si può essere - esclamò in Senato - controllori e tutori del denaro pubblico e insieme, spesso, sperperatori dello stesso". Contrario, dunque, all'idea dello Stato-padrone, Sturzo sosteneva che lo Stato rettamente inteso è elemento indispensabile alla convivenza civile e quanto più è forte e giusto, tanto più l'armonia sociale viene assicurata. Lo statalismo, al contrario, è una perversione dell'idea di Stato in quanto distruttore di ogni ordine istituzionale e di ogni morale amministrativa, mentre la partitocrazia ne è il fenomeno più appariscente. Sturzo non negava l'intervento statale in alcuni casi, ma l'interventismo generalizzato. Non discuteva la direttiva dello Stato, ma il dirigismo. Non avversava gli enti statali, ma la statizzazione dell'economia. Ed era consapevole di maneggiare materiale incandescente al punto che non nascondeva al suo partito gli effetti dello statalismo selvaggio senza essere ascoltato. Il Centrosinistra, del resto, si stagliava all'orizzonte. Le conseguenze nefaste della onnivora pratica statalista le abbiamo scontate nella crescente disoccupazione, nella dilatazione del debito pubblico, nell'improduttività di numerose aziende puramente assistite, nel forsennato ricorso alla cassa integrazione, nell'insopportabile pressione fiscale. Su tutto questo, naturalmente, ha prosperato la partitocrazia. Il fondatore del Partito popolare si applicò in modo quasi maniacale, negli anni Cinquanta, a dimostrare come e in quale misura i partiti politici avessero proceduto ad una sistematica occupazione dello Stato, fino a sostituirsi ad esso. Ed osservava: "Si dirà: che cosa deve fare un partito se non si occupa degli affari del governo, del Parlamento, delle amministrazioni locali, delle nomine dei propri membri a posti di comando, E così di seguito? Tutta la finezza e l'arte politica dei dirigenti dei partiti sta proprio in ciò: occuparsi di tutte le cose sopra elencate, e di molte altre ancora, senza invadere il campo dei poteri e delle competenze del governo, del Parlamento, delle amministrazioni locali e delle proprie sezioni ed organismi periferici. Il compito specifico dei partiti politici in democrazia è quello di organizzare il corpo elettorale; prepararlo ed educarlo alla vita pubblica; fare da intermediario fra gli organismi del potere e dell'amministrazione e il cittadino; correggerne l'istinto demagogico ed indirizzare al servizio pubblico l'impulsiva passionalità delle masse". Per Sturzo la partitocrazia è la malattia che mina la democrazia. L'errore dei partiti è quello di volersi ingerire nel governo e nell'amministrazione del Paese. Nel 1958 Sturzo formulò una proposta di legge tesa alla moralizzazione della vita pubblica, alla limitazione del potere dei partiti nell'attività parlamentare e governativa, al controllo delle spese e dei finanziamenti degli stessi. Non riscosse molto successo. I fasti partitocratici erano appena cominciati. Ci sono voluti molti decenni ed una crisi formidabile che li ha squassati, perché i partiti politici italiani riconoscessero implicitamente la verità di Sturzo. In tutto questo tempo è prevalsa una sorta di deificazione del partito che dunque aveva bisogno di un'aura ideologica, surrettiziamente totalitaria, per proporsi ed affermarsi. Se Sturzo fu isolato negli anni Cinquanta (cercò di rimediare Luigi Einaudi nominandolo nel 1952 senatore a vita), come lo furono alcuni suoi compagni di strada, da Maranini a Costamagna, da Panfilo Gentile a Vinciguerra, a Operti, non dipese da lui, ma dallo "spirito del tempo". E' ora di rendergli giustizia.

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