Spadolini, il conservatore illuminato
Disolito arrivava in treno la domenica sera da Firenze, agganciando il vagone speciale riservato al Presidente del Senato ad un Intercity che giungeva alla stazione Centrale di Milano verso le 22. Lo si aspettava insieme ai carabinieri della scorta, per poi dirigerci tutti verso uno dei ristoranti della città o verso la piccola casa in via Sicilia, all'interno dell'edificio che ospita un residence per studenti dell'università Bocconi. Giovanni Spadolini amava quei suoi lunedì milanesi per tanti motivi, che qui proveremo a ricordare. Li amava però essenzialmente per una ragione: era il momento della settimana in cui poteva essere (certamente più che a Roma, forse più che a Firenze) quello che era nel fondo del suo animo e della sua formazione politica e culturale, cioè un illuminato borghese conservatore. Per dirla con il linguaggio della politica di oggi, un solido uomo di destra, amante delle regole, delle tradizioni e dell'Occidente liberale. Certo il Professore conosceva gli usi della politica, sapeva bene che quella parola, «destra», non era praticabile all'epoca. Lo sapeva a tal punto che non aveva difficoltà a parlare da uomo di sinistra nel corso di una qualche infuocata assemblea dei repubblicani romagnoli, magari nella monumentale Casa del Popolo di Ravenna. Altro non era che il nobile concedersi al rito ineludibile della prima Repubblica, in cui lo spazio politico praticabile era soltanto quello tra il centro e la sinistra, essendo concesso al solo Msi di collocarsi a destra della Democrazia Cristiana, pena il fatto di essere fuori però dall'«Arco Costituzionale». Faceva in qualche modo eccezione il Partito Liberale, che evitava comunque accuratamente ogni contatto con il partito di Almirante e dei suoi eredi. Spadolini era un Gran Borghese già nel vestire, con quella sua solida convinzione di volersi proporre sempre uguale a se stesso: abito scuro, scarpe nere, camicia bianca e un filo di fazzoletto (bianco) che esce dal taschino. Verrebbe da dire una divisa di giolittiana memoria. Il massimo della sregolatezza poteva essere una cravatta con qualche spunto di colore vivace, ma erano casi rari, spesso riservati alle campagne elettorali (Visentini invece osava con le cravatte quasi tutti i giorni). Tornando al lunedì a Milano, va però spiegato perché quel giorno e quella città erano per lui momento di presenza pieno di soddisfazioni. Milano era la città della grande industria (Fiat a parte) e delle grandi banche. Era la città delle antiche dinastie imprenditoriali, della Bocconi, del Corriere della Sera. Era la città di Bettino Craxi, cui Spadolini non avrebbe lasciato campo libero per nessuna ragione al mondo, convinto com'era di poter meglio rappresentare (anche attraverso un altro stile) quell'incrocio di potere e vivacità culturale che trovava nella Scala il suo palcoscenico naturale. I lunedì di «Giovannone» (come osavamo chiamarlo rigorosamente in sua assenza) erano densi di ritualità. L'inizio era alla Bocconi, verso le nove. C'era l'incontro con Enrico Resti, l'uomo chiave dell'amministrazione e c'era il saluto con Mario Monti, il rettore. Va detto con franchezza: tra i due c'era stima, ma poco feeling, anche se poi nel lavorare per l'interesse dell'università trovavano sempre l'accordo. C'erano poi tante telefonate, cui seguiva spesso l'incontro con due tra gli uomini cui Spadolini teneva maggiormente nel giro delle sue frequentazioni. Due pezzi da novanta della storia d'Italia, due protagonisti la cui empatia con il professore ne spiega a fondo le caratteristiche di conservatore illuminato, di laico liberale di stampo risorgimentale. Quegli uomini sono Indro Montanelli ed Enrico Cuccia. Si andava a via Negri, sede de Il Giornale, per l'incontro tra due amici, due personaggi geniali e fumantini, due toscanacci burberi ma pieni di storia, fascino e idee. Parlavano di politica e di giornali, di storia e libri, trovando per molti la battuta sferzante e per pochi parole di stima. Montanelli sedeva nella sua piccola stanza di direttore, dove Spadolini arrivava volentieri come una specie di ciclone, spesso senza avvisare. Arrivando c'era però sempre tempo per un saluto a Mario Cervi, il cui ufficio si trovava tra l'ascensore e la segreteria del direttore. Si andava invece a via Filodrammatici con ben altra liturgia. Cuccia e Spadolini si incontravano alzando i pennacchi dei due poteri «forti» che rappresentavano: la finanza e la politica. Gli appuntamenti erano sempre fissati in agenda con giorni di anticipo, la puntualità era rispettata al centesimo di secondo. Maranghi aspettava il Presidente nel cortile di Mediobanca, Cuccia compariva, passando da un porticina, direttamente nel salottino per gli ospiti. All'uscita però arrivava l'omaggio all'ospite importante: il banchiere più potente d'Italia arrivava fino all'ascensore e (almeno una volta) sino alla macchina parcheggiata in cortile. Montanelli, Cuccia, Spadolini. Tra parole e giochi di sguardi si alimentava una sintonia tra uomini diversi per ruoli e storie, ma uniti da un sentimento di adesione alla stessa idea dell'Italia. L'idea di un Paese alleato degli americani (e amico d'Israele), forte di una borghesia dell'impresa e delle professioni che guarda con diffidenza a tutte le esperienze politiche della sinistra (comunista o socialista poco importa), una nazione dalle istituzioni laiche che considera però la Chiesa (e il Vaticano) come asse portante di quello che eravamo, siamo e saremo. C'erano nei lunedì di Spadolini a Milano gli incontri con Mario Spagnol alla Longanesi, le serate al Santa Lucia con Gaetano Afeltra, le cene a casa Cingano, Mortara, Ottolenghi, Beria d'Argentine. C'era il legame strettissimo con Assolombarda (non certo con la Cgil), che organizzava periodicamente incontri a colazione nella bella foresteria all'ultimo piano di via Pantano. C'era un rapporto indissolubile con i Carabinieri (non con i centri sociali), che per anni avevano messo a sua disposizione un piccolo appartamento in caserma (ancora non erano Arma autonoma). Erano gli anni del terrorismo vero, quello che a Firenze uccide Lando Conti perché Spadolini è troppo protetto (come fu scritto nel volantino di rivendicazione). Sono passati 15 anni dalla morte di Spadolini, che fu (politicamente) travolto da quella stagione incredibile che fu il biennio '92-'94. Nella primavera del suo ultimo anno di vita vide Berlusconi (ma anche l'avvocato Agnelli) preferirgli Scognamiglio per la presidenza del Senato. Se è vero che la storia non si fa con i se, credo però si possa dire con serenità che lo scioglimento voluto da Scalfaro nel '96 avrebbe trovato in Spadolini seconda carica dello Stato ben altro atteggiamento. Comunque in quel momento lui se n'era già andato da quasi due anni, per cui la discussione è scarsamente significativa. La sua morte ha privato la politica nazionale di un campione purissimo, rigoroso custode del meglio della tradizione nazionale, che passa per Cavour e Mazzini, Garibaldi e Giolitti, Gobetti e De Gasperi, Moro e La Malfa. Sì, secondo me Spadolini era un uomo di destra. Ma era soprattutto un bell'italiano.