Dialetti con senso
Nencionie Devoto, se fossero vivi, inorridirebbero per le improvvisazioni di questi giorni sul dibattito della necessità o meno dell'uso dei dialetti nella didattica e della difesa delle tradizioni nell'insegnamento scolastico delle lingue locali. E per cominciare non avrebbero mai usato il termine dialetto, ma parlate o parlari della Nazione italiana secondo la consuetudine della Crusca anche se presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche esiste un Centro studi per la dialettologia italiana. Proprio quest'ultimo ha recentemente pubblicato una Carta dei Dialetti d'Italia, dividendo i parlari in 14 gruppi, 52 famiglie linguistiche e 53 sottofamiglie a queste collegate con quattro aree linguistiche individuate come aree di complessa classificazione (catalana in Sardegna, arberesh in Sicilia, Calabria, Molise e Abruzzo, croata in Molise, grecanica in Puglia-Salentina). Centoventisei aree linguistiche, dunque. E poiché il valore semantico di un termine sottende sempre e comunque una valenza istituzionale, studiare e fare studiare questi gruppi di idiomi, vuol dire capire i fatti e gli atti della nostra storia giuridica nazionale precedente al momento codiciale ma anche (e soprattutto) capire i mutamenti delle consuetudini giuridiche subite prima e dopo l'Unità della Penisola delle singole comunità nel confronto con le raccolte normative. Fare chiarezza in questo groviglio di problemi non è semplice. Ci proviamo. Il cosiddetto volgare italiano (da vulgus, popolo, quindi la parlata popolare) che si identifica poi con la somma delle parlate toscane, è il frutto di oltre tremila anni di diffusione linguistica nella Penisola di infiniti idiomi che si identificano nel degrado lento e inesorabile del latino. Il quale soppianta le tre grandi famiglie linguistiche della Penisola (osco-umbro, etrusca e ligure) di cui tuttora è traccia abbondante nelle parlate appenniniche fondendosi tuttavia con queste e dando vita a un latino vivo, vario, palpitante, diversificato regione per regione, terra per terra, borgo per borgo, assimilando le abitudini fonetiche, morfologiche e sintattiche delle genti della Penisola che, mentre riconoscevano nel latino la propria lingua, la mutavano con il risultato da dare vita a una miriade di famiglie linguistiche pari a quelle che il latino aveva assorbito. Lo sapeva bene Dante Alighieri che in De Vulgari Eloquentia dirà che poiché siamo tutti figli della lingua latina, perché ogni parlata locale contiene quest'ultimo nella sua essenza, di conseguenza tutte le parlate possono dirsi latine anche se il volgare illustre è quello di Guido Cavalcanti, Cino di Pistoia e di lui stesso. Gli unici a difendersi dall'eredità latina furono i parlari centro-meridionali poiché l'osco-umbro appenninico e i calchi greci continuarono a rimanere saldi (vedi ps^k per roccia da cui tutti i centri abitati con l'eponimo pesco, da Pesche nel Molise a Pescasseroli in Abruzzo, a Pescosolido, Pescocostanzo e così via e vedi us'm, olfatto, fiuto, odore, dall'osmòs greco dello stesso valore). Le continue dominazioni straniere nella Penisola portarono all'immissione di elementi arabi, germanici, francesi, spagnoli, mentre si delineavano sempre più sette gruppi linguistici alloglotti (ladino-friulana, franco-provenzale-tedesca, catalana, grecanica, arberesh e croata), per un totale di circa seicento comuni sparsi in tutta la Penisola. I padri fondatori della scienza linguistica italiana dal Manzoni all'Ascoli conoscevano bene la ricchezza dei linguaggi e si posero due problemi: a) determinare quale dovesse essere la parlata nazionale; b) come difendere le parlate locali. E non ebbero dubbi: la lingua nazionale doveva essere quella nata in Toscana, dalla confluenza delle parlate fiorentina con quella senese e della Val di Chiana così come era stata formulata da Dante fino al risciaquar dei panni in Arno di Manzoni; le parlate locali dovevano essere tutelate e conservate attraverso l'insegnamento della lingua nazionale. Un gruppo di studiosi (da De Sanctis al Ascoli e a Monaci) diedero vita ad un progetto che ebbe lo sbocco nell'ordinanza dell'11 novembre 1923 che proclamò l'obbligatorietà di insegnare la lingua nazionale attraverso le singole parlate locali, ma questa ordinanza non fu mai applicata perché nelle scuole furono chiamati maestri elementari privi delle conoscenze delle lingue locali e impossibilitati perfino a potere dialogare o comprendere i ragazzi dei singoli territori della penisola, specie dell'Italia Meridionale. Fu così che migliaia di giovanissimi furono allontanati dall'istruzione pubblica. Il fallimento fu tanto più grave perché due grandi giuristi, il Besta e il Solmi, (quest'ultimo fu anche ministro di Giustizia) avevano ipotizzato la raccolta delle consuetudini giuridiche locali in parallelo con i singoli gruppi linguistici della Penisola, sull'esempio di quanto era accaduto in Francia. Così fallì il progetto di fare una Nazione di culture diversificate e distinte fra loro, presupposto di una Nazione federale, una Nazione che fosse cioè la Grande Patria che riunisse le Piccole Patrie che non dovevano mai essere abbandonate e dimenticate. A fare fallire il progetto fu l'esigenza dell'unità politica (o meglio di un certo modo di intendere l'unità politica) che ritenne le parlate locali nate dalla medesima lingua primaria (cioè dialetti, il che è un falso storico) senza tenere conto che le forti immissioni linguistiche estranee al latino, sovrappostesi nel corso dei secoli, avevano dato vita a una miriade di lingue diversificate, le 126 aree linguistiche italiane appunto cui abbiamo prima fatto cenno, e quindi le 126 consuetudini giuridiche programmate da Solmi e Besta. 126 famiglie linguistiche che necessitano, per farsi capire, dell'utilizzo della lingua nazionale, veicolo dell' unità nazionale. Se questa è la situazione della questione della lingua in Italia, prima di dar vita a modifiche legislative bisogna considerare: a) la lingua nazionale dello stato repubblicano è quella italiana derivante dalla tradizione toscana che da Cino da Pistoia e Dante Alighieri perviene al Manzoni; B) le parlate locali vanno tutelate, ma tutela non vuol dire equiparazione, pena lo scadimento della lingua nazionale: lo dimostra la famosa 482/1992 che dà tutela legislativa alle lingue alloglotte (ladina, tedesca, friulana, franco-provenzale-catalana, arberesh e croata), apparsa ai più di dubbia costituzionalità.