Dino De Laurentiis, i 90 anni dell'uomo che reinventò il cinema
(...)mi ero sentito dire al telefono dalla sua casa negli Stati Uniti: «Ormai viaggiare mi piace meno». Il simbolo dell'efficienza, invece, dell'audacia, del gusto per le vittorie più difficili, fino ad arrivare, nei Sessanta, a dedicarsi addirittura quella Dinocittà sulla Pontina con cui, sempre sicuro di sé sapeva di poter opporsi a Cinecittà sulla Tuscolana, gestendo il cinema non solo partendo dai testi, dagli autori, dai finanziamenti e dagli interpreti, ma anche dal primo giro di manovella in studi attrezzati al meglio anche dal punto di vista tecnico. Ci eravamo conosciuti giovanissimi: io agli inizi come critico, lui, dopo aver studiato da attore al Centro Sperimentale, agli inizi nel settore, che non avrebbe mai più lasciato, della produzione. Mio padre torinese, si era messo d'accordo con Mario Soldati, anche lui torinese, per produrgli un film, «Le miserie del signor Travet» dalla celebre commedia di Vittorio Bersezio, uno dei capisaldi del teatro piemontese. Il protagonista sarebbe stato Carlo Campanini, l'antagonista Gino Cervi e il finanziatore, principale era Riccardo Gualino, torinese a sua volta e fondatore, da poco della Lux Film. Fu lui a indicare a mio padre e a Soldati un ragazzo di Torre annunziata, che usciva però dal Centro Sperimentale e che gli era sembrato molto adatto a occuparsi di produzione, Dino De Laurentis, appunto. Arrivò nell'ufficio di mio padre (c'ero anch'io) con un giovanottone al fianco che parlava con accento romanesco. «Ve lo consiglio — disse subito — anche se siete tutti piemontesi, in mezzo a voi potrà farsi una strada, perchè i numeri ce li ha». Lo presentò: Alberto Sordi. Da lì l'inizio, diciamo pure sfolgorante, di una carriera che, ad ogni tappa, segnava una vittoria, specie se mirava, decisa e puntuale, alla qualità, con firme di autori via via sempre più affermati. Lattuada, ad esempio, cui Dino, già pronto a produrre in proprio, fece realizzare «Il bandito», poi De Santis che, in «Riso amaro», gli avrebbe fatto incontrare Silvana Mangano cui si sarebbe legato per una vita. Fino all'incontro, fruttuosissimo, con il milanese Carlo Ponti cui, associandosi, dovette di poter continuare in quella politica degli autori pronta, grazie ad entrambi, a dar risultati ottimi anche sui mercati. Due film con Rossellini «Europa '51» e «Dov'è la libertà» (quest'ultimo con Totò), un film con De Sica, «L'oro di Napoli», tre film con Fellini, «La strada», «Le notti di Cabiria», «La dolce vita», un film con Monicelli, «La grande guerra», un film con Visconti, «Lo straniero». Un occhi però anche a quelle grandi produzioni che non tardano a distinguersi nel panorama del cinema non solo italiano ma internazionale: «Barabba» di Richard Fleischer, «La Biabbia» di John Huston. Capaci di indicare a Dino nuove strade quando, di fronte a una delle tante crisi del nostro cinema, venduta Dinocittà, iniziò quella sua grande avventura americana in cui, anche oggi, continua ad ottenere primati. Basterebbe ricordare grandi film come «Serpico» di Lumet, «I tre giorni del Condor» di Pollack, «Buffalo Bill e gli Indianui» di Altman, «L'uovo del serpente» di Bergaman, «Ragtime» di Forman, affiancati — un altro modo di vedere in grande — da rifacimenti ambiziosi di classici di Hollywood, come un nuovo «King Kong» e un nuovo «Bounty». Scrivendone e lodandoli convinto, mi veniva in mente qualche volta l'unico incidente fra noi, ai primi dei Sessanta, quando io, recensendo qui su Il Tempo «La banda Casaroli» di Vancini, sollevai qualche riserva perché non mi aveva del tutto convinto, criticamente, il tentativo di coniugarvi insieme il neorealismo e la commedia. Mi sentii chiamare al telefono da Dino: un profluvio di contumelie tratto dal più colorito repertorio napoletano dei bassi, salvando mia madre perché, al momento di «Travet» l'aveva conosciuta e le aveva inviato dei fiori. Pensai a uno scherzo di qualcuno che avesse imitato la sua voce, ma di lì a mezz'ora mi sentii chiamare da suo fratello Luigi, persona meravigliosa, cui mi legò sempre un affetto addirittura figliale: «Dino è imbarazzato, non sa cosa gli abbia preso, vorrebbe scusarsi, ma non osa e comunque vorrebbe vederti perché da tempo ha un progetto per te che gli sta a cuore». Eccomi, qualche giorno dopo, nell'ufficio di Dino, allora alla Vasca Navale, vicino al Velodromo. Un tavolone immenso, dietro, una poltrona presidenziale, in alto, su una mensola, un grande leone di legno dorato sinbolo della Dino De Laurentiis perché lui, nato d'agosto, diceva che predililgeva il segno del Leone. Entrambi desiderosi di dimenticare, tranquilli, di nuovo amici. «Ho qui un copione sul Conte Verde, è un film in costume, vorrei proporti la regia». Così l'esordio. Rispondere no poteva essere la spia di un rancore non risolto, rispondere sì rischiava di cambiarmi la vita. Trovai una via d'uscita: «Amo troppo scrivere — dissi — e il cinema mi piace se lo vede stando davanti ad uno schermo. Come ci arrivano i film, sento che non è affar mio». Rammaricato concluse: «Avresti fatto molti soldi». Aveva ragione, ma son più contento così. Gian Luigi Rondi