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L'agricoltore inciampato nel latino

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Lenote di Lucio Battisti sembrava facessero gonfiare l'abitacolo di quella A112, nell'estate del 1972. Il nastro della cassetta si era quasi logorato a furia di fare avanti e indietro per riascoltare ad agosto i «Giardini di marzo». Non mi interessava il mare: troppa gente, troppo sole, troppo tutto. Anche se il troppo di quell'estate poco aveva a che vedere con le estati successive sulla costa di Terracina. Ieri, mettendo la testa sott'acqua, era ancora possibile vedere qualche pesce nuotare. Oggi i pesci sono scappati via, a largo, spaventati dalle orde in visita al mare. Così come è corsa via la vite americana, quasi affacciata sulla sabbia di allora, a tenere compagnia ai bagnanti. Oggi sono rimasti solo i bagnanti. Niente mare in quell'estate del 1972, ma passeggiate dietro Terracina, sulle colline. Il mare era là sotto, lontano. E "Piazza Palatina" si affacciava su quel blu duro, filtrando ogni rumore. Di lassù, il primo contatto ufficiale con il mondo antico, reso concreto proprio grazie alle pietre e alla pietra. Anche la campagna era ancora tale e guardava il mare dalla collina, attraversata da un sentiero non asfaltato corrispondente esattamente al percorso della via Appia antica... Sopra Terracina, quel sentiero, arrampicandosi, lasciava vedere, di tanto in tanto, qualche basolo, relitto residuale della strada dell'epoca romana. E tutto era degradato naturalmente. I basoli erano caduti a valle o erano stati reimpiegati da qualche contadino per costruire muri a secco a contenimento delle vigne. Altri tratti di muri si confondevano con l'erba alta: diroccati, sbrecciati, carichi di vento e salsedine stavano là a richiamare la memoria di chi aveva scelto quei muri per farsi ricordare. Muri di vecchie tombe, oggi totalmente anonime, ieri dichiarate dalle pietre collocate lì, ai loro piedi. Da lassù si vedeva il mare, in basso. Con la stessa prospettiva di chi (millenni fa) camminava sulla stessa strada, per scendere verso Terracina o andare nella direzione opposta, verso Fondi. In quel pomeriggio di agosto, faceva quasi fresco e l'estate sembrava finita da poco e salivamo a piedi su quel sentiero, consapevoli di passeggiare su una parte della via Appia antica... Rumori di zappe sulle zolle della terra... Contadini che ci guardavano, facendo finta di non vederci... Uno di loro, seduto su un blocco di travertino: troppo levigato per essere un accidente rotolato dalla cima della collina. Nei suoi occhi, il riflesso del mare e una espressione vagamente incuriosita dalla nostra curiosità: «Ma cosa avranno da guardare quei due di Roma! Cosa c'è di strano in questo sasso quadrato su cui sto seduto?». Così sembrava dire quel contadino. Rivolto a noi, cittadini, incuriositi dal quel sasso antico, su cui erano scolpite alcune lettere... Quelle lettere, antiche...incise sulla faccia del blocco... Il contadino le aveva viste là da sempre e non ci faceva caso. Per lui era un sasso scritto, con lettere incomprensibili. Per noi, amanti dell'antico era un'iscrizione. Un'iscrizione latina, appartenuta a chi aveva scelto quella zona come ultima casa: sulla collina, di fronte al mare, al margine della via Appia antica... Quel sasso scritto raccontava due vite. La vita finita di Attius Maecilius Dionisius e la vita presente del contadino, discendente inconsapevole di Attius Maecilius Dionisius... Non so se quell'iscrizione è ancora là, dopo più di trenta anni. Ma, ancora oggi, dopo duemila anni, continua a far parlare di sé. Assicurando una vita perenne ad Attius Maecilius Dionisius: che sarà stupito di questo. E ci starà guardando con gli occhi incuriositi come quelli di quel contadino, meravigliato dell'interesse di due ragazzi verso una pietra scritta con lettere strane. Mentre, di fronte al mare, la vita continua.

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