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Quando la politica era rispetto

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Apensare ai veleni che si respirano in quest'estate politica al cianuro, mi è venuto in mente un episodio del Ventennio che dimostra come, paradossalmente, ai tempi della dittatura fascista ci fosse, addirittura, un rispetto quasi maggiore per l'avversario anche se, magari, si trattava di un fuoriuscito, di un confinato o, addirittura, di un esiliato. Una piccola storia, quella che vi narro, che dovrebbe comunque farci riflettere, se volete, sulle tante lacerazioni della Seconda Repubblica. A raccontarmi la vicenda fu Indro Montanelli che era molto amico di Italo De Feo (e perché era, appunto, un suo amico non volle sponsorizzarlo al vertice della Rai: altro episodio che ci dovrebbe fare meditare). Proprio Italo gli parlò di un suo lontano cugino, il prefetto De Feo, che, a un certo punto, si trovò nella segreteria del Duce. Ogni mattina, il prefetto portava a Mussolini la cartella dei documenti da firmare e questa consuetudine, assieme a una certa complicità perché entrambi soffrivano di ulcera, finì per creare un buon «feeling» tra loro. Un giorno il Duce notò che De Feo era molto abbacchiato e gli chiese la ragione. Il prefetto cerco di nicchiare, ma poi parlò: «Ho sbagliato, eccellenza, volendo interpretare il suo pensiero ma senza consultarmi con lei. È successo che, nei giorni scorsi, era arrivata una lettera di quel comunista di Nicola Bombacci, in esilio a Parigi, che, ricordando la vostra comune militanza socialista in Romagna, aveva l'ardire di chiedere un aiuto finanziario perché la figlia, gravemente malata, ha bisogno di cure costose. Ho spedito a Bombacci un po' di denaro ma ho così provocato le ire del segretario del Pnf, Starace, che mi ha convocato, redarguendomi aspramente e stracciando la tessera del partito». Il Duce ascolta in silenzio il racconto di De Feo e poi congeda il prefetto in modo insolitamente brusco. Passano alcuni giorni e De Feo viene nuovamente convocato che, senza proferire parole, apre un tiretto della scrivania e gli consegna una tessera del partito nuovo di zecca. Poi, con un sorriso, il segretario del Pnf dà un buffetto sulla guancia a De Feo, dicendogli: «Ci avevi creduto, cretinetti...». La storiella, oltreché quasi inedita, sembra quasi inventata, ma ieri l'ho raccontata alla figlia di Italo, la senatrice del Pdl De Feo, che non me l'ha smentita. E lo stesso Montanelli continuò a spergiurare che fosse vera. Del resto, tra Mussolini e Bombacci (che era nato a pochi chilometri da Predappio, in un paesino, Civitella di Romagna, che aveva dato i natali anche a Leandro Arpinati, prima amico e poi nemico di Benito), i rapporti non furono mai veramente interrotti. Se ai tempi della comune militanza socialista, Mussolini prendeva bonariamente in giro Bombacci per la sua barba fluente («troppo pelo per un coglione solo...»), successivamente tra i due restò in piedi un certo dialogo segreto. Nonostante la lunga diaspora: Bombacci fu tra i fondatori del Partito Comunista a Livorno poco tempo prima della marcia su Roma, andò a Mosca come membro del Comintern e collaboratore di Lenin, finendo poi in esilio. Il riavvicinamento avvenne ai tempi della Repubblica di Salò quando Mussolini riprese alcune idee socialiste della sua gioventù. E proprio Bombacci che, negli anni d'oro del fascismo, era oggetto di un motivetto di scherno cantato dalle camicie nere («con la barba di Bombacci faremo spazzolini per pulire gli stivali di Mussolini...») finì appeso con la testa in giù a Piazzale Loreto assieme al Duce e a Claretta Petacci. La storiella raccontata da Montanelli ha una sua morale: innanzitutto la constatazione che il fascismo avesse anche una dimensione provinciale, fatta di piccoli episodi e di aneddoti, come se ci fosse pure un lato buono della dittatura. Ma poi c'è un altro risvolto da non sottovalutare: nonostante l'olio di ricino, il confino e l'esilio, nel Ventennio restava, in certi casi, una traccia di rispetto nei confronti dell'avversario politico come, appunto, insegna la vicenda di Bombacci. Quel rispetto verso l'altra trincea che oggi, a dispetto della democrazia, sembra una merce sempre più rara.

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