Bruce Springsteen conquista la Capitale
Quando Bruce provò per la prima volta a cercare la verità nella sua chitarra, alla Casa Bianca c’era Nixon alle prese con il Watergate. Quella stessa poltrona ha visto presidenti alle prese con il Vietnam, l’Iraq, l’Afghanistan. Springsteen è rimasto, è ancora qui. Quando nel gennaio scorso è apparso al Lincoln Memorial per celebrare l'arrivo di Obama, leader nero a Washington, è apparso chiaro che Bruce ha scavato, a modo suo, un solco nella storia americana, attraverso guerre e dolori, speranza e lutto. Solo lui - un cantante rock - ha saputo incarnare la continuità di un Paese sterminato e contraddittorio, illuminante e tormentato, accogliente ma indecifrabile. Solo lui ha saputo tenere in mano i granelli del Grande Sogno, quello che nei piccoli deserti della disillusione di un popolo continuava a scivolare via tra le dita. Ha impugnato quella chitarra come se fosse un'arma, e non ha smesso di crederci: di combattere come poteva, per chi non voleva arrendersi all'inesistenza di un El Dorado, di una "terra promessa" del Novecento che terminava sulla riva del Pacifico, dopo che ogni esplorazione sembrava esaurita, e dopo che ogni strada era stata perlustrata, percorsa ad alta velocità, per vedere se dietro ogni curva ci fosse una risposta per una generazione nata sì "per correre", ma senza stordirsi nè schiantarsi. Tenere alta la guardia, fino a un Sogno da riconquistare. Lavorandoci su, come dice "Working on a dream". E allora eccolo qui, alla vigilia dei suoi sessant'anni, mai così in forma, pronto a dispensare il messaggio che senza Bush la parola America può essere accolta con un sorriso ovunque nel mondo, o quasi. Il nuovo tour è una festa continua, un'invocazione alla vita, a quell'acqua miracolosa che è davvero il rock'n'roll, quando è proposto come se ogni concerto fosse quello decisivo di tutta una carriera. Lo vedi mille volte e ci ricadi: ti dici che "questo è il più bello di sempre", che non è routine, che stavolta si è superato. Anche a Roma, per la sua prima volta all'Olimpico, è così. In quarantamila lo aspettano fino a sera inoltrata, si comincia davvero tardi per non dar fastidio al nuoto, ma l'attesa è di quelle che vale, perché Bruce e la E Street Band sono la più formidabile, poderosa macchina da rock live di tutti i tempi: la loro benzina è l'amicizia, il reciproco sostentamento, quel patto di lealtà su cui si fondano le imprese più ardue e le zingarate più esaltanti. Metterci le mani, i muscoli, l'anima, senza risparmio. Lo capisci subito con l'apertura spezzacuore di "C'era una volta il west" in omaggio a Morricone che annuncia (dopo il suo "Ciao Roma!!") la furia di "Badlands", prima di una "Outlaw Pete" di sapore western. Nelle due ore e mezza di show, sotto un palco essenziale, che si fa beffe della megalomania scenografica di altre star, sfilano in sequenza tanti dei suoi classici, a rotta di collo giù con "Out in the street", "No surrender", "She's the one". Su "Working on a dream" si avventura in un discorso in italiano maccheronico: «E' bello essere nella città più bella del mondo, siamo venuti da mille miglia lontano per mantenere una solenne promessa, per trovare la nostra anima, la nostra casa di musica e spirito. Ma abbiamo bisogno che Roma faccia rumore!». Figurarsi il pubblico. Si recuperano meraviglie poco suonate, come la rabbiosa "Seeds", dal sapore operaista e steinbeckiano, che avanza inesorabile come un treno lungo le sponde del Mississippi. O le folgoranti "Johnny 99" e "Atlantic city", ritratti di uomini perduti tra azzardo e delitti. Poi, nel mezzo della giocosa cover soul di "Raise your hand", va in prima fila a prendere dai fans i cartelli delle canzoni a richiesta: e tutto lo stadio esplode alle prime note della travolgente "Hungry heart" della rockabilly "Pink Cadillac", di una "I'm on fire" bruciante di desiderio. A una ragazza venuta dal New Jersey, dedica, nel giorno del suo compleanno, "Surprise surprise". E Bruce non può negare la vertiginosa "Prove it all night", che in una notte d'estate serve qui, e non solo agli amanti. Ecco la spensieratezza di "Waiting on a sunny day" (tira su un bambino sul palco e lo incita a cantare), la rabbia che spezza i polsi nelle vene di "Promised land", l'inaspettata "41 shots", (denuncia di un delitto gratuito commesso dalla polizia di New York ai danni di un nero), le dolorose ma catartiche "Lonesome day", "The rising", fino alla maestosa "Born to run". Quando è il tempo dei bis, Springsteen fa brillare come nuova una perla "my city in ruins" (la mia città in macerie): la dedica è per l'Abruzzo. C'è spazio per la fuga dalla città dei perdenti nell'epos di "Thunder road", per quel viaggio verso le magnifiche visioni giovanili che è "Jungleland", per la foto dolente ma fiera di "American land", per la fratellanza riconfermata di "Bobby Jean", il divertimento di "Dancing in the dark". Nulla, nella sua offerta laica alla celebrazione rock, è scontato, banale, già sentito. Anche se suonato mille volte. Perchè questo, come sempre, è il suo concerto migliore. Fino al prossimo.