Decamerone nel Vermont
Èvero ch'era stato illuminato, in luglio, dalla nascita di Anna Maria, la quarta delle mie figlie. Ma in quello stesso anno avevo perduto uno dei due parenti più cari, lo zio materno Roberto. Poi, tra il gennaio e l'aprile, erano venuti a mancare l'uno dietro l'altro, come càpita spesso a chi si è voluto bene, mio padre e mia madre. Le cose all'Università non andavano bene. Avevo congelato anni ed anni redigendo un indigeribile mattone sulle radici della cavalleria medievale che mi aveva impedito di scrivere altro, ciò che serve a vincere i concorsi, e che non trovava un editore. Ero candidato a un concorso per professore ordinario di storia medievale, ma i rumors mi davano perdente. Ce n'era abbastanza per "entrare in depressione", come si dice. Forse anche per questo decisi di spedir moglie e figlie al mare e di cambiar aria per un po'. Ero insegnante a contratto nella sezione fiorentina di un'università del Vermont, il Middlebury College: e mi era già capitato di passare qualche mese nella sua Summer School, fra i boschi e i prati che piacevano tanto anche a Soljenitzin, in un "triangolo magico" del New England, fra Québec, le cascate del Niagara e New York. Quando penso che c'è gente che mi considera un viscerale antiamericano - solo perchè ho scritto che Bush è un imbecille: e capirai... -, mi scappa da ridere. Io vado pazzo per gli States, come tutti quelli della mia età, cresciuti a musica americana e films americani. Anche quell'anno, al College si erano ricordati di me. Avrei dovuto spiegare il Decameron di Boccaccio a una cinquantina di studenti di italianistica (molti d'origine italiana). M'aspettavo un'estate tranquilla. Magari un po' noiosa: lo svago più interessante era andare al villaggio vicino, dove alla domenica mattina c'era la messa cattolica, quindi la colazione al vecchio mulino - un posto da "ultimo dei mohicani" -, al pomeriggio un paio di sale cinematografiche e la sera due o tre pubs niente male. Poi, al giovedì, il ristorante locale serviva i lobsters arrivati freschi dal Maine; e a metà estate c'era da organizzare la festa con la rappresentazione del Midsumnmer Dream di Shakespeare. Insomma, se il Paradiso somiglia al New England (e non lo escludo), quello era il Paradiso. Mi aspettavo solo di annoiarmi un po'. Al contrario, fu un'estate movimentata. Il corso doveva durare tre mesi: lezioni al mattino e al pomeriggio dal lunedì al venerdì, riunione organizzativa ogni sabato mattina. La mia introduzione sarebbe durata due settimane: nelle dieci settimane seguenti, si sarebbe dovuto leggere tutta l'opera, una novella al mattino e una al pomeriggio. Al sabato, si leggevano le relative "cornici". Un lavoro massacrante. L'autentica sorpresa furono gli studenti. Divisi in dieci gruppi (tanti quanto i narratori delle novelle) a capo di ciascuno dei quali c'era un leader. Nel capolavoro del Boccaccio, i narratori sono tre giovani e sette donne. I leaders si calarono perfettamente nella loro parte: c'era un Panfilo alto, bello, sicuro di sé, che giocava bene anche a rugby; c'era un Filostrato pallido, magro, sempre innamorato e mai corrisposto; un Dioneo scanzonato, d'origine campana, di cui si diceva passasse con disinvoltura da un letto all'altro delle studentesse e anche di qualche ancor piacente professoressa. Le ragazze erano ancora più incredibili: una solare Pampinea, abbigliata in botticelliani abiti giallo-oro o arancione, che ricordava Kim Novak; una sensuale Fiammetta dai capelli bruno-rame e dagli occhi verdi, che quando ti guardava piegando leggermente la testa ti faceva arrossire; una Neifile esile, capelli nerissimi e pelle di luna, che veniva dall'Idaho e suonava il pianoforte come solo la sua origine russa poteva averle insegnato a fare. Scoprii con moderata sorpresa che, fino ad allora, del Decameron non avevo capito quasi niente: era come se lo leggessi la prima volta. Ora, con l'aiuto di quei fanatici, mi si schiudeva un mondo di tesori insospettati. Comprendevo il sottile gioco dei rapporti simbolici tra i personaggi e i racconti, distinguevo la "storia interna" della compagnia dei narratori, che il Boccaccio finge di descrivere svagatamente e che invece disegna con mano ferma. Poi c'erano gli annessi novecenteschi a quel "romanzo per novelle" del Trecento. La rivalità, le ripicche, gli amori, le risate. Siccome i gruppi si chiamavano con i nomi dei dieci narratori e all'interno di ciascuno di essi i singoli studenti si erano dati per distinguersi un numero progressivo, si veniva a sapere che Dioneo 3 ed Emilia 2 si erano bisticciati e lasciati, che Filomena 4 impazziva per Filostrato 5, che Elissa 2 non aveva preparato la lezione perché il giorno prima era stata a ballare, che Panfilo 5 si era strafogato di hamburgers e birra la sera prima e ora stava male. Quasi trent'anni dopo, ogni tanto mi arriva qualche cartolina di quei ragazzi, intanto divenuti professionisti o managers, qualcuno militare. Ero stato in Afghanistan ai primi degli Anni Settanta, e ne avevo parlato a proposito delle novelle orientali del Boccaccio: un ex-studente del Kansas, ora colonnello di fanteria, mi ha scritto qualche mese fa da Kabul dicendomi che ormai è tutto distrutto, che la gente li odia e che lui non riesce a far loro capire che invece li ama: e che li ama anche perché ricorda quel che io raccontavo di quei montanari dalle lunghe barbe, della loro allegria e generosità. Il colonnello porta un nome che non avevo mai imparato: ma si è firmato Panfilo 2, e mi sono subito ricordato di lui. Un'estate indimenticabile. Ma non chiedetemi se mi ero preso una cotta per Pampinea. Questi sono fatti miei.