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Petrarca è più grande se ritrova le sue virgole

Petrarca, Dante e Boccaccio visti dal Vasari

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Se c'è un Dio della poesia - e c'è di sicuro - ha mandato doni alla volta di Catania. Qualcuno troverà altisonante questo avvio di recensione. Il libro ha già alcuni mesi di vita, ma ora che lo abbiamo terminato non troviamo altro tono. Aprire il volume della edizione critica che Giuseppe Savoca ha procurato delle «Rerum vulgarium fragmenta» dona un'emozione fortissima. Se c'è - e c'è di sicuro - un Dio dei filologi, ha reso merito al prof Savoca per i 3685 versi modificati, per le 8455 variazioni puntuali, per l'eliminazione di 2600 segni di interpunzione e per il restauro di 2750.   Il volume ci regala note impreziosite per via di tecnologica perizia con le fotine di brani "discussi" dell'originale. La introduzione con cui il professore si stacca con "tremore e trepidazione" da un volume a cui ha dedicato "tanti anni di lavoro quasi quotidiano" mostra a grandi linee lo scopo che esso raggiunge. La tradizione delle edizioni petrarchesche aveva finito per dare assodata una specie di necessaria riscrittura della punteggiatura di Petrarca, allontanandosi sempre più dai segni presenti nell'originale (segni di punteggiatura ma anche di rasura, di accento ritmico, di divisione di parole etc). Si era dunque finito per correggere un Petrarca che pareva un poco sciatto nella punteggiatura. "In dissenso da tutti, scrive Savoca, la maggiore ambizione della presente edizione va ricercata nella convinzione contraria, e cioè nel ritenere che Petrarca abbia curato fino alla minuzie la sua punteggiatura, e che questa (naturalmente sempre alla luce della filologia) vada mantenuta (e, dove necessaria e possibile restaurata) così come l'ha voluta l'autore. Dalla radicale revisione di tutta questa materia, continua Savoca, è venuta la scoperta, ad esempio, di una notevole zona di interpunzione prosodica, finora data come assente". E dunque quando si apre la parte dei testi, di cui si conosce quasi nella pelle l'andamento, ecco c'è un brivido nuovo. Perché chi scrive e chi ama la poesia sa che gloria e tormento sono i segni di interpunzione o d'altro che cerca musica "anche al di là della sintassi". È proprio quel "cantar che nell'anima si sente" che Savoca pone a esergo del suo immenso lavoro. Altri e preziosi sono i suggerimenti per il filologo. L'attenzione avuta per le "macchie speculari", segni lasciati involontari dal copista, o dallo stesso Petrarca sul codice Vaticano 1395, o da altri suoi possessori. Sono anch'essi piste filologiche. Petrarca, come sapeva bene l'Ungaretti suo lettore, è tra coloro che hanno fissato in "amore" la parola-luce della lirica italiana. L'endecasillabo perfetto si compone ripetendo cinque volte la parola "amore". Siamo tutti figli di questo padre dispotico e mite, come lo chiamò Luzi, onorando e pur tentando di sfuggire la forza che ebbe di stabilire per sempre il "canone" della lirica italiana. Ora riaprire il Canzoniere è come aprire un libro futuro. F. Petrarca, «Rerum vulgarium fragmenta», a cura di G. Savoca, Olschki 2008  

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