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Gli anni Ottanta finiscono qui

Michael Jackson

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... nell'istante in cui la morte di Jackson ha trascinato in un improvviso buco nero il sogno di leggerezza degli adolescenti di due decenni fa. Sparita con lui l'antica euforia del "riflusso", quella voglia sottile di dimenticare le stagioni delle tensioni, degli scontri, della ribellione giovanile che prima di allora aveva bruciato il mondo, lasciando dietro di sé troppi sogni svaniti in insidiose nuvole di fumo. In Italia, per soprammercato, ci si metteva anche il sollievo per essere scampati alle bombe e alle barricate, alle P38 e alle molotov. Imperversavano i modelli protoberlusconiani dei "paninari", le "madonnare" coatte, i "nuovi romantici", i primi "rapper" da importazione, qualcuno si aggirava con gli occhi bistrati e lugubri ma innocui paramenti "dark" da figli della notte: era la rivincita del look, della confezione, dell'apparire. Dell'involucro del corpo sullo spirito ormai sovraccarico. Troppo schiacciate erano rimaste le coscienze dei fratelli maggiori nelle aspettative dell'hippysmo, nell'autoemarginazione beat, nelle contrapposizioni senza scopo. Così, chi oggi ha fra i trenta e i quarant'anni avverte la scomparsa di Michael come un lutto generazionale, la privazione di un diritto alla nostalgia, il compianto per un'icona effimera ma potentissima, nella quale (eccezion fatta per la vita privata dell'artista) riconoscersi per sempre. Chi ora attraversa l'età di mezzo sente il rumore dei dadi del destino che chiedono un altro tributo allo star-system, perché ogni decennio - anzi, ogni cultura pop - pretende il suo. James Dean incarnava l'oscura inquietudine degli anni Cinquanta, di quei ragazzi che non provavano gratitudine per i padri che, vincendo la guerra, avevano consegnato loro un mondo libero. Marilyn raccontava - prima delle battaglie femministe - la drammatica fragilità di una donna che soccombeva alle soperchierie del potere, non solo hollywoodiano. Elvis - quel cadavere mai visto da alcuno - sigillava la fine di un sensuale nuovo sogno americano. Jim Morrison dei Doors moriva (o forse no, chiedete a chi giura di averlo incontrato) portandosi nella tomba il gioco esaltato del poeta alla Rimbaud, che tutto bruciava nel fuoco della giovinezza. Il fantasma di Hendrix, il più talentuoso chitarrista della storia del rock, ammoniva i reduci di Woodstock, persi nell'Utopia, droga più letale di mille altre. E John Lennon: ecco, negli spari del suo assassino risuonava l'oltraggio a una fiaba universale, quella che ancora oggi, quasi trent'anni dopo in tanti continuano a cercare tra le aiuole dello Strawberry Fields, la piccola porzione di Central Park dedicata alla memoria dell'ex Beatle, proprio di fronte al marciapiede in cui fu ucciso. Suicidi, omicidi, misteri, inchieste mai convincenti, avvistamenti, percezioni paranormali: nessuno ha mai concesso agli eroi pop del Ventesimo Secolo il diritto di riposare in pace. Li si trattiene qui, con ogni mezzo. Li si invoca, finchè non ci si arrende. Finché non ne si elabora l'assenza. Chissà quando. Jackson si è autosacrificato davanti all'altare di quello che qualcuno definì "l'edonismo reaganiano". Mettendoci di suo un'ostinazione psichica nel sottrarsi, con una metamorfosi incessante, alla tirannia di un corpo odiato, rifiutato, del quale avvertiva pulsioni ingestibili. Lui che si sentiva avvolto in un sortilegio già più nero della sua pelle. Lui che si credeva un bambino cresciuto ma pretendeva di sposare Liz Taylor, mito di trent'anni prima. Lui che aveva scritto una canzone segretamente dedicata alla principessa del Galles, quella "Dirty Diana" che tiranneggiava nelle radio quasi un decennio prima dello schianto sotto il Ponte dell'Alma, quando gli anni Ottanta si frantumarono per la prima volta contro l'Ombra che l'altro ieri li ha portati definitivamente via.

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