Parigi rende omaggio a Boris Vian
{{IMG_SX}}Il 23 maggio a Parigi la storica Salle Pleyel ospiterà un sostanzioso tributo a Boris Vian, scomparso proprio quel giorno di cinquant'anni fa. Un omaggio molto sentito a cui hanno già aderito madame Carla Bruni, Juliette Greco, Ute Lemper, Johnny Hallyday e numerosi altri artisti parigini di primo piano. La Francia venera questo grande artista, compositore, autore, scrittore ed egli stesso musicista, che movimentò il lato più creativo e nottambulo dell'esistenzialismo e della rive gauche. Ma la serata non si annuncia certo come evento semplicemente rievocativo. Sul palco ci saranno la big band Le Sacre du Tympan, Amèlie les Crayons, Agnès Jaoui, Thomas Fersen, dunque il meglio della nuova onda. È già pronto un doppio album, «On n'est pas là pour nous faire engueuler» e non poteva mancare la riedizione di alcuni suoi importanti libri. In Italia è appena uscito «Musica & dollaroni», a cura di Gianfranco Salvatore, edito da Stampa Alternativa, un duro saggio contro l'industria della canzone. Apprezzato e temuto da Sartre, stimatissimo da Cocteau, sostenuto da Queneau, Boris Vian, oltre che figura di primo piano della Parigi intellettuale e cantinaiola degli anni Quaranta e Cinquanta, è stato certamente un poeta e un compositore pacifista ante-litteram, certamente prima di Bob Dylan e Joan Baez. Il suo brano «Le dèserteur», scritto nel 1954 contro la politica coloniale del generale De Gaulle, è più che un manifesto della nascente canzone di protesta. Ivano Fossati mantiene questo brano in scaletta da anni, rammaricandosi che «oggi le canzoni di protesta nascono già spuntate». Vian era considerato un poeta, un scrittore e un jazzista, ma anche una sorta di eminenza grigia in grado di coniugare il jazz e la canzone d'autore, le minoranze etniche francesi, i creoli con i nord africani, fornendo stimoli in continuazione per l'intero universo culturale parigino. Visse l'arte come un gioco, da quel grande polemista che era, sempre con causticità e umorismo, rivendicando il suo ruolo di dilettante. Sicuramente un enfant terrible, ma anche un lucido scrittore e critico di jazz, addirittura mordace nei confronti di un ambiente e di alcuni critici in particolare refrattari al rinnovamento della musica afro-americana. Morì d'infarto a 38 anni e questo, purtroppo, alimentò la sua leggenda, anche se la musicalità della sua prosa e delle sue trovate non aveva nessun bisogno di essere riscoperta, visto che non era mai stata dimenticata. Già cinquant'anni fa, Vian aveva fotografato con grande precisione i limiti e i rischi dell'industria culturale e discografica in particolare: «Il genere commerciale è uno di quei settori che non potranno sfuggire all'automazione e sarà possibile costruire ciò che consentirà in avvenire la fabbricazione interamente automatica della canzone». Proclami profetici talmente azzeccati da far venire i brividi, soprattutto in considerazione all'aspetto strutturalista e antropologico, in virtù della strada che la musica leggera, alla fine degli anni Cinquanta, si apprestava a percorrere. Boris Vian è stato il primo esegeta della musica popolare e sui scritti debbono considerarsi un debito morale, oltre che un testamento culturale. Giusto ricordarlo allora, senza però perdere di vista lo sberleffo, il nonsense, quel sarcasmo di cui era maestro e di cui sentiamo la mancanza.