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Keith Jarrett, il concerto di Napoli diventa incantesimo

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È una nota, una sola. Ma lui non può tollerare di averla sbagliata, e ricomincia da capo. Il brano è uno struggente standard sentimentale chiesto in prestito a Billie Holiday: tra le dita di Jarrett, "I'm a fool to want you" rinasce lì come un miracolo generato dal dio della musica, una folgorazione assoluta. A quel punto, dopo due ore di performance, il San Carlo rossiniano non vorrebbe più farlo andar via, e Keith stesso pare, a decifrare la sua ombrosa mimica, felice di essere lì, ispirato, illuminato come non sempre gli accade. Alla fine i bis saranno cinque: con la citazione per se stesso nel boogie travolgente di "Blues", la malìa profonda di "But beautiful" (firmato da Bill Evans e Stan Getz), la spudoratezza della cover sinatriana in "Lonesome old town" e il gran finale per l'incanto di "Over the rainbow", una delle sue riproposizioni favorite, come ben sa chi lo vide alla Scala, in un altro dei suoi rari, memorabili concerti per piano solo. Quest'anno, di simili eventi Jarrett se ne concede solo tre: il primo è stato in gennaio alla Carnegie Hall di New York, in autunno suonerà a Berlino. Intanto, in estate tornerà a girare il mondo con il suo trio di campioni, i fidati Gary Peacock e Jack De Johnette: a luglio saranno anche a Firenze e Mantova. Serate a rischio di interruzione, perché il virtuoso della tastiera notoriamente mal sopporta il pubblico distratto e vociante delle serate estive all'aperto: nel 2007 i suoi insulti al pubblico di Umbria Jazz fecero scalpore e offesero gli appassionati. Diversa cosa è quando il 64enne talento americano si trova in totale solitudine davanti alla tastiera: e vale la pena aspettare, come ha fatto Paolo Uva direttore artistico dell'"Angeli Musicanti festival", che per convincerlo alla sortita napoletana ha insistito per dieci anni, vedendosi anche rifiutare location come Piazza del Plebiscito o la Certosa di Capri. Poi, all'improvviso, Jarrett si è deciso a venire: forse per un'altra delle sfide con se stesso, all'indomani di una tormentosa separazione coniugale, e certamente anche per misurare a che punto è la sua battaglia con la sindrome da affaticamento cronica, che lo costringe a viaggiare con un medico personale, e a centellinare le apparizioni. È sceso nel capoluogo partenopeo qualche giorno prima dello show, per respirare l'odore, il cibo, i rumori segreti della città. Si è rintanato, con qualche capriccio, nella suite dell'Hotel Vesuvio dove Caruso terminò i suoi giorni, davanti a Castel Dell'Ovo, "lì dove il mare luccica e tira forte il vento". Poi si è concesso a quanti lo attendevano al San Carlo: molti fans erano arrivati direttamente dall'America. Nel palco reale, anche un incuriosito Guido Bertolaso. Jarrett ha ripetuto il suo prodigio (che forse, se diventerà un disco, non sfigurerà di fronte ad altre sue registrazioni live, eccezion fatta per l'impareggiabile "Koln Concert"). Oggettivamente, quando si contorce, mugola e lotta fisicamente con il piano, sembra un pazzo. Non a caso chiede che agli strumentisti della classica venga lasciata la libertà di inventare, di rinnegare lo spartito, affinché non escano di senno. Seduto, (o in piedi, spesso), a volte perfino attorcigliato davanti allo Steinway chiesto al noleggiatore di Ancona (ne ha scelto uno fra i tre esemplari trasportati sul palco), l'ex tastierista di Miles Davis ha dimostrato cosa nasconda il buco nero dell'improvvisazione. Otto "brani vergini" (in due tempi da quaranta minuti l'uno) scaturiti in un istante da qualche regione remota ed insondabile della sua creatività, lì dove solo lui sa afferrare al volo la coda universale della musica, che gli gira intorno e lo estenua, lo prostra, lo minaccia, lo salva. Partito a caccia di un "cluster", di un grappolo di note vagamente free jazz, si è fermato di colpo dopo dieci minuti, come centrato al cuore da una freccia: lì ha attaccato un meditativo che era una ballad perfetta, celestiale, che ti costringeva a chiederti se non stesse imbrogliando, se quella composizione non esistesse già da qualche parte. Niente, lui la stava inventando in quel momento, e così ha continuato, tra furore sensuale e lirismo post-romantico, tra i fantasmi appena vagheggiati di Bach o Duke Ellington. Che di sicuro erano lì ad ascoltare quel suo esorcismo immateriale e travolgente. A un certo punto, travolto dagli applausi dopo una song maestosa, ha chiesto al pubblico di omaggiare non lui, ma quel demone di corde e tasti che nelle sue mani rinnovava il duello tra genio e possessione.

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