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Banana Yoshimoto si fa in quattro

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{{IMG_SX}}Ha cominciato a lavorare nel 2001, nello stesso Stabile di Torino, di cui aveva appena frequentato la scuola. L'anno scorso è stata la volta del Festival di Napoli che al giovane Carmelo Rifici ha chiesto di mettere in scena il romanzo di Banana Joshimoto «Chie Chan e io», coprodotto insieme al Teatro Mercadante e al Teatro Eliseo, dove è in programmazione fino al 31 maggio. C'è stato un percorso comune fra l'adattamento teatrale di Giorgio Amitrano e la sua regia? «Il problema del romanzo è che si tratta di un flusso di coscienza, di un'unica voce narrante. Questo avrebbe comportato una staticità e un'impossibilità forse di rappresentazione. Giorgio mi propose di quadruplicare il personaggio della protagonista, in modo che ci fossero più voci ad interloquire fra loro. E io ho accettato». Avete isolato qualche tema fra quelli presenti nella letteratura della Yoshimoto? «Il tema della morte, dei fantasmi che ritornano, qui ci sono meno. E c'è un amore accanito fra la protagonista Kaori e la cugina Che Chan, con cui decide di creare una vita separata dagli altri. Come per rompere una tipologia di famiglia e crearne un'altra, scelta per motivi emotivi e sentimentali. Una specie di limbo, di paradiso ricostruito. Questo forse significa non avere il coraggio di vivere appieno una vita esterna, coi suoi pericoli e le sue insidie. E su questo conflitto si costruisce lo spettacolo». Qualche cenno sull'allestimento? «Non poteva essere uno spettacolo d'impostazione naturalistica. La regia accompagna il flusso di coscienza della protagonista all'interno di una scena neutra che mi consente di seguirne tutti gli spostamenti mentali. Come succede nei sogni». È possibile trovare dei punti di contatto con la mentalità giapponese da cui nasce il romanzo? «È molto difficile. Quello della Yoshimoto è un mondo che va guardato, infantile, un po' naif. Addirittura inverosimile. Questa possibilità dell'inverosimile è quotidiana nel modo di vivere giapponese. Io ho cercato di superare con l'ironia, che già c'è nella scrittura, la distanza con questo mondo che non ci appartiene e che ci viene raccontato».

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