La poesia è verticale come lo slancio della vita
Questa impressione non nasce solo, o tanto, dalle impennate fiammanti, sacerdotali della voce poetante, quanto dalla straordinaria ricchezza plastica delle sue figure, delle sue metafore, dei suoi simboli. Grazie a questa plasticità, molte poesie della Spaziani hanno potuto spostarsi negli anni da una all'altra delle sue raccolte senza soffrire come piante sradicate dal loro habitat; attraverso ogni nuovo innesto la poetessa ha saputo mettere a fuoco altre curve tematiche, altri nodi e snodi meditativi, altre vibrazioni di sogni e d'anima, di carne e di stelle. Riprendendo dodici composizioni da alcuni tra i suoi libri più celebri e affiancando ad esse due testi inediti, Maria Luisa Spaziani ci offre ora una nuova silloge, "Poesie verticali" (edizioni Ampersand a tiratura limitata), di grande pregio non solo per i bibliofili. Ciò che rende prezioso il libro, oltre alla sapienza tipografica di chi l'ha realizzato (Alessandro Zanella) e alle eleganti incisioni di Marina Bindella, è il lavoro di montaggio da cui è nato, capace di evidenziare uno dei fili conduttori di quest'opera poetica, l'emozione del sacro. La "verticalità" a cui il titolo del libro allude non ha nulla di quella tendenza alla purezza del pensiero o dei registri lirici che ha così spesso raggelato la modernità in cristalli di duro, astratto ascetismo. Verticale è, semplicemente, lo slancio della vita nel suo miracoloso nascere e rinascere, il soffio "che innerva il tralcio-lazzaro e lo spinge a fiorire". Saper cogliere questo slancio è come assaporare il profumo della trascendenza, quel "di più" che ogni primavera porta in sé al modo d'una promessa pasquale, d'un segno di redenzione dell'universo. Certo a volte la primavera è molto piovosa, e assai faticoso il suo "svincolarsi dalle fredde brume"; fuor di metafora: a volte è difficile continuare a sperare. Ma ci sono tra noi degli uomini - i santi - che sanno sempre spingere lo sguardo più in là delle nostre paure, che sanno scorgere "i germogli sopra i rami / ghiacciati di febbraio", che percepiscono "lievi musiche venire / da stridori di frese". Se la poesia ha ancora un senso, essa non può non farsi "antenna ricevente" di queste musiche senza tregua rinascenti dalla morsa delle nostre impasse. Misurarsi in spirito di franchezza con tutto ciò che insidia i nostri cuori e il cuore del mondo (l'oscillare dei giorni fra "sistole e diastole, / osanna e crucifige", i "sette / veli" delle illusioni che ci imprigionano nell'ebbrezza delle "rotte aberranti") è necessario per chi, come la Spaziani, non crede, non ha mai creduto che la poesia possa ripiegarsi narcisisticamente su di sé, sedotta dall'idolatria della forma. Per lei, in molti modi diversi, la poesia è un esercizio della preghiera: è il coraggio di gettare un grido al cielo per domandare aiuto ("Qualcuno mi prenda per mano..."), ma è anche il gesto dell'umiltà, della pazienza, quel gesto che solo il sentimento del mistero e la fiducia nella grazia, nel dono delle cose senza perché, può custodire: "Starò in ginocchio a ringraziare Qualcuno. / Lo chiamo Dio. Lui mi attende sempre".