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«Io, carabiniere deportato da Roma allo Stalag VII»

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Lavicenda dei Carabinieri romani nell'ultima guerra, è una pagina della Resistenza che è giusto riscoprire. Dopo l'8 settembre combatterono a Napoli e a Roma contro i tedeschi e, quando la capitale fu dichiarata "città aperta", i Carabinieri, vicini alla popolazione civile, costituivano un intralcio alle attività delle truppe tedesche. In effetti Kappler aveva un compito, la deportazione degli ebrei, ma sapeva che i Carabinieri non l'avrebbero permessa. Il 7 ottobre fece quindi deportare 2500 Carabinieri, che ostinandosi a non collaborare con gli occupanti, furono internati nei lager nazisti per quasi due anni. Tra questi c'era il Ovidio Labella, che oggi racconta: "Il 7 ottobre 1943, alle 8,15 in punto arrivarono in caserma i paracadutisti tedeschi, che ci disarmarono e la sera ci caricarono su una tradotta di carri bestiame. Il viaggio sembrava interminabile e durante una sosta, ci si fece incontro un gruppo di donne. Una di loro raccolse un mio biglietto che inviò a casa mia; così riuscii a comunicare ai miei che ero ancora vivo. Dopo 7 giorni, arrivammo in Germania, a Mosburgo, Stalag VII A. La maggior parte di noi non si reggeva in piedi, anche perché per tutto il tragitto non avevamo neppure mangiato. L'ingresso del campo di concentramento era sovrastato dalla scritta Il lavoro rende liberi. Lì ci hanno dato la piastrina di riconoscimento. Io avevo sempre al collo un crocifisso che mia madre mi aveva donato quando mi sono arruolato. Istintivamente l'ho attaccato alla piastrina, pensando che, in quella situazione, a qualcuno dovevo pur rivolgermi per chiedere aiuto. Eravamo malnutriti e cercavamo sempre qualcosa da mangiare. Lungo i reticolati, guardavamo tra le erbe, se ce ne fosse qualcuna commestibile. Raccoglievamo anche le bucce delle patate, che mangiavamo bollite. Un giorno, ridotti alla fame, ci schierarono di fronte ai soldati tedeschi con gli ufficiali al centro che ci arringavano, esortandoci a tornare in Italia, a combattere con i tedeschi. Ma nessun carabiniere si mosse, nessuno rispose. Allora ci portarono alla fabbrica dove avremmo lavorato per circa 15 mesi. Le baracche erano piene di cimici e i letti a castello avevano i materassi di cartone pressato e paglia. Ci vestirono con casacche da lavoro e zoccoli di legno. Lavoravo per 12 ore al giorno, senza sosta, davanti agli altiforni, che andavano a 2-3 mila gradi. Nell'ambiente chiuso eravamo tutti neri di fuliggine. Vicino al nostro campo c'era Dachau, che potevamo vedere, ma non sapevamo cosa fosse realmente. Ci dissero solo che Dachau era il campo di punizione, se non ci fossimo comportati bene. Con il tempo le incursioni aeree degli americani si intensificarono e quando suonava l'allarme l'importante era allontanarsi dalla fabbrica perché più facilmente, lì sarebbero cadute le bombe. Ma durante un bombardamento, fu colpita una parte del campo dove c'erano gli alloggi. I pezzi a brandelli di altri prigionieri, rimasero appesi lungo la recinzione. Verso la fine di aprile del 1945, non c'era sorveglianza e i bombardamenti erano continui. Finchè arrivarono gli americani a liberarci. Nel 1977 sono tornato a vedere i luoghi della mia prigionia ed è stata una grande emozione. Perché ero sopravvissuto. Del campo non era rimasto più niente. Ma la fabbrica era ancora lì e io ci sono tornato dentro. Da uomo libero."

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