La fine del Che tra dramma e realismo
Laprima, desunta per il cinema da Peter Buchman, lo sceneggiatore di «Alexander», dal «Diario della Rivoluzione Cubana» scritto appunto dal Che, si svolgeva in quegli anni dal '56 al '58 che videro Fidel Castro e i suoi combattere sulla Sierra Maestra le forze del regime corrotto di Fulgencio Batista fino alla conquista dell'Avana. Questa di oggi, invece, si rifà al «Diario della rivoluzione in Bolivia», anche quello del Che e anche quello riscritto da Peter Buchman, e ci porta in quel '67, in cui il Che, lasciati a Cuba moglie e figli e una posizione al vertice del potere, si era trasferito in Bolivia per portarvi gli stessi ideali della rivoluzione che aveva fatto vincere a Cuba e venire incontro alle dure necessità di una popolazione oppressa da un regime militare. Presto però tradito da tutti. Dai responsabili del partito comunista che, ligi a Mosca, avevano subito preso le distanze da un radicale ritenuto scissionista, dagli stessi contadini cui aveva creduto di potersi rivolgere per l'approvvigionamento dei suoi guerriglieri e presto da tutti (o quasi) i boliviani che vedevano in lui solo uno straniero. Fino a un ultimo tradimento che lo faceva cadere in mano ai militari. Pronti a dargli la morte. Già nella prima parte Soderbergh, con realismo asciutto aveva evitato i trionfalismi, pur arrivando, narrativamente, fino alle soglie di una vittoria. Qui, che doveva invece procedere fino a una sconfitta e a un finale tragico, si è dimostrato anche più riservato e quasi distante, specie quando, attorno al suo protagonista, evoca a poco a poco, con immagini plumbee anche nel sole della giungla, un clima di malinconia e addirittura di lutto. In cifre, però, sempre trattenute e quiete perché anche quelle sconfitte e quei dolori non abbiano in nessun caso accenti forti. Per indurre comunque a meditare. Come Che, anche questa volta a Benicio del Toro, non è mai concesso un primo piano. Perché quel dramma sia soltanto corale.