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Sergio Leone, quel romano che resuscitò il western

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Claudia Cardinale sul set di

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Ottant'anni dopo la sua nascita e vent'anni dopo la sua morte comincio a ricordare Sergio Leone dal suo ultimo film che aveva solo pensato, senza poterlo realizzare, quello sull'assedio di Leningrado. Abitavamo vicini, ci vedevamo spesso, una sera lui sempre così riservato sulla presentazione dei suoi film, mi disse che, di quell'Assedio mi avrebbe almeno raccontato la prima sequenza. "Inizierò con un dettaglio ravvicinatissimo, le mani di Šostakovic al pianoforte riprese da un elicottero. Poi mi allargo, con un "piano sequenza", ed esco in una piazzetta della periferia di Leningrado all'alba, dove, da alcuni portoncini, spuntano alla spicciolata dei civili armati che montano su un tram. Seguo questo tram, altri uomini salgono fino al termine della corsa dove attendono altri tram, altri uomini e subito salgono su dei camion in attesa. Li seguo finché giungono a una prima trincea, la scruto, accompagnato dalla musica di Šostakovic. Arrivo così a poco a poco a scoprire tutte la linea di difesa russa mentre la macchina da presa comincia a inquadrare una teoria di bocche da fuoco - i panzer tedeschi - un migliaio, pronti a sparare"... Era il tipico esempio di un inizio "alla Leone", dal dettaglio al totale, sempre nello spazio di quei "piani sequenza" in cui si erano già cimentati Antonioni e Jancsó. Con la stessa attenzione per la coralità di cui Leone aveva già dato prova quando ancora si firmava Bob Robertson per citare lo pseudonimo, di suo padre Roberto Roberti. Con quello pseudonimo, del resto, mi ero imbattuto in lui la prima volta: con un film, "Per un pugno di dollari", che avevo cominciato a vedere senza nessun interesse, all'oscuro di quanto aveva alle spalle, immediatamente conquistato, invece , dopo le prime pagine, da un sospetto di ironia che, ben lontano dalla parodia, dava comunque colori diversi ai personaggi anche più truci. Con un'aria scanzonata che sembrava proporre, con precise intenzioni, il nostro grande Gian Maria Volonté e l'allora sconosciuto Clint Eastwood. Mi aspettavo una imitazione, era invece un tale film d'autore da finire per far emergere da quel singolare pseudonimo all'americana, il nome italiano di chi lo aveva realizzato, Sergio Leone, appunto. Come avremmo continuato a leggere da quel momento, a cominciare dal film immediatamente successivo, "Per qualche dollaro in più". Anche lì assassini a pagamento ma enunciati solo a puro titolo di cronaca: per dimostrare, quasi con malizia, che in quel West, per sopravvivere, bisognava uccidere. Ripetendo la dimostrazione anche nell'ultimo film di quella smagliante trilogia, "Il buono, il brutto e il cattivo". Un film, che come i precedenti, furbescamente cominciava con tre personaggi e una caccia al tesoro. Per demistificare però soprattutto le parole. Mi disse infatti Leone commentandolo: "Cosa vuol dire buono, brutto o cattivo? Siamo tutti un po' brutti, un po' cattivi, un po' buoni"... Arrivato a questo punto, Leone poteva uscire da un genere, avendolo rivificato, per meditare sulle ragioni storiche sociali, di psicologia e di coscienza collettive che vi erano alla base. Ecco così "C'era una volta il West", il momento riassuntivo della sua epopea western. Un'opera quasi monumentale creata da un autore che, un film dopo l'altro, vedeva sempre più in grande come se, allontanandosi dal dettaglio e dalla cronaca, fosse ormai sempre più il quadro generale a interessarlo: con intenzioni di rappresentazione ma, da quel film (e, subito dopo, con "Giù la testa"), anche di "canto": il canto che si addiceva all'epopea e che poteva corrispondere anche alla tragedia. Sempre però "alla Leone": senza enfasi, cioè, ed anzi con la consueta attenzione per il particolare da cui poi, risalire all'universale. Me lo aveva fatto rilevare lui stesso: "Anche se voi critici avete considerato "C'era una volta il West" un'opera spettacolare, io l'ho sempre ritenuto un film intimo: la nascita di una nazione vista attraverso un balletto di morte". Da quel "momento" alla somma di tutto il suo cinema, la tappa ultima, la più grande: C'era una volta in America". Una tappa motivata: dopo il western e il West, Leone non poteva non estendere la sua ricerca all'intera nazione che li aveva determinati ed accolti. Non con l'intenzione di proporcene la storia (il titolo non era "C'era una volta l'America"), ma con il desiderio, ancora e sempre, di "cantare", in una cornice americana idealizzata, i temi da lui più amati, spesso presenti, anche in cifre segrete, negli altri suoi film. In "C'era una volta in America", doveva dirmi, "c'è dentro Proust, c'è un omaggio critico anche negli anni Trenta, ai film di Bogart, di E.G. Robinson. Visto attraverso un tema a me caro, l'amicizia virile. E c'è anche il mito di certi personaggi. Non favolosi come quelli del West, perché vestiti ed armati in modo differente, ma nemmeno privi del fascino del background che un certo cinema gli ha dato; l'alleanza degli emarginati, le scelte dettate dalle disperazioni, le amicizie. E il loro negativo, il tradimento, la violenza, la corruzione; soprattutto fra i gangster". Il film su Leningrado sarebbe stato di certo, secondo lo stile di leone, un "colosso" in cui la poesia sarebbe riuscita a dar voce anche al singolo, mai travolto dall'epopea. "C'era una volta in America", però, al momento dei ricordi, basta a ridarci, in un riassunto veritiero, il segno completo di Sergio Leone autore e poeta: la sua soggettività, i suoi lampi visionari, le sue sotterranee esplorazioni nell'incoscio (alla Proust, appunto), sostenuti sempre da una salda ricerca tecnica e stilistica. Insomma la sua opera maggiore. A Cinecittà, una sera, dopo che, a me solo, lo mostrò in anteprima, non avevo potuto a meno di dichiarargli: "Sei proprio il leone del nostro cinema!". E non potevo certo dire di più perché "leone", finché visse, avevo sempre chiamato il mio caro Alessandro Blasetti.

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