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Decamerone, la terrestre commedia di Boccaccio

Decameron

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Francesco De Sanctis definisce il «Decamerone» di Giovanni Boccaccio «terrestre commedia» ed ha ragione. Ci vien da aggiungere che i suoi personaggi potrebbero dire, parafrasando il detto di Terenzio «homo sum: humani nihil a me alienum puto», «uomini siamo: nulla di ciò che umano riteniamo estraneo a noi». Tutte cose imparate al liceo, ma non è male ripassarle. Sono «uomini» i dieci giovani - sette fanciulle e tre ragazzi - che, per sfuggire alla peste che infuria su Firenze e porta con sé morte e degrado morale, si radunano nella campagna fiesolana e passano il tempo raccontando ciascuno una novella al giorno. Dieci giovani, dieci giorni: cento novelle, come vuole l'azzeccato titolo grecizzante («deka», dieci; «emera», giorno). Cento novelle di «varia umanità»: una rassegna di affetti, passioni, vizi. Dove il corpo trionfa sullo spirito; la furbizia e la malizia sull'onestà e sull'innocenza; l'audacia e la spregiudicatezza sulla nobiltà e il decoro? Il tutto come si conviene a una società mercantile e materialista che guarda con irriverenza la morta, ma non ancora del tutto sepolta, civiltà feudale? E sbeffeggia i suoi valori e i suoi codici di comportamento? Beh, che la «vulgata» sia più o meno questa, è un fatto. Così come è un fatto che molti che non l'hanno letto o magari conoscono solo il «Bignami» di alcune novelle, giudichino il «Decamerone» un'opera immorale o amorale, soprattutto fortemente pruriginosa, al limite del «pornografico». Insomma, nulla che abbia a che fare con lo spirito; carne, sempre carne, fortissimamente carne; l'«interesse» come molla delle scelte, senza uno straccio di principi che le ispirino; l'intelligenza e la volontà protese all'appagamento dei desideri. Diciamo la verità: un po' di colpa di tutto questo c'è l'ha anche il De Sanctis che, nella sua «Storia della letteratura», insiste sul fatto che nell'opera del Boccaccio non c'è posto per le astrazioni né per il misticismo, ma solo per il corpo. Saremmo dunque di fronte a un mondo «vuoto di forze interne e spirituali» e a un «teatro di fatti umani abbandonati al libero arbitrio e guidati dal caso». L'autore, mosso dalla «curiosità degli accidenti e dei caratteri», sarebbe interessato solo ad atti e comportamenti nella loro «straordinarietà di cause ed effetti» e perfino negli intrecci drammatici o tragici «l'emozione resterebbe superficiale ed esterna e non condotta fino allo strazio com'è nel fiero dolore di Dante». Verrebbe quasi da pensare al Boccaccio come a uno spensierato gaudente che, sulla base dell'esperienza, di uno schietto e spregiudicato realismo, di una potente vocazione letteraria e di un altrettanto forte talento narrativo, si fa alfiere di una contromorale prammatica ed edonistica. Insegnando ai lettori a «vivere» senza ubbìe metafisiche che guastino loro il piacere di abbandonarsi ai sensi. «In primis», a una sensualità da esercitare senza alcun complesso di colpa, perché colpe non ce ne sono e tutto quel che è conforme a «natura» trova in essa la propria legge. Ebbene, in Boccaccio c'è anche questo, ma non solo. Lo dimostra la sua vita che non è una sequenza di avventure galanti, ma dove c'è posto, certo, per gli innamoramenti e per l'amore, che sono «natura», ma anche per altre cose che alla natura umana appartengono, e cioè il dolore, la fedeltà, l'onore, e andando a piani ancor più alti, la tensione spirituale, le inquietudini, la costante cerca di un «senso», che non si esaurisca,ci si conceda il gioco di parole, nei «sensi». Proprio perché crede nell'uomo e vuole rappresentare l'umanità, il Boccaccio sa che sul palcoscenico di questo grandioso teatro deve portare la complessità del reale. Ed è proprio così che allestisce la «terrestre commedia» uno scrittore che seguì «virtute e conoscenza»" tra mille «contraddizioni», sperimentò tutti i generi letterari del tempo (dal romanzo d'avventura al racconto allegorico, dal poema cavalleresco alla novella) e fu, non dimentichiamolo, fervente ammiratore e acuto chiosatore di Dante. Ne fu ispirato? Certo è che la «lieta brigata» dei novellatori termina il suo «viaggio intorno all'uomo», dedicando l'ultima giornata alle virtù tradizionali, care alla civiltà cortese e all'Alighieri. Se insomma l'opera ha come primo scenario il mondo mercantile e come primo attore quel Ser Ciappelletto che ha sempre sbeffeggiato Dio e la morale, e lo fa anche in punto di morte, presentandosi al suo confessore come un uomo dall'esistenza immacolata e meritandosi dunque fama di santo; essa si conclude in una cornice nobilmente feudale con l'esempio sublime di Griselda, capace di ogni sacrificio, modello di virtù, emblema di perfezione terrena. Una sorta di Madonna, sia pure di questo mondo. Aggiungiamo che se non mancano nel «Decamerone» le donne che ingannano, mentono, tradiscono e si fanno beffe dei mariti e dei genitori per soddisfare i loro appetiti carnali, ci sono anche tante «pure femmine», per dirla con Dante, e dunque donne per nulla aureolate di beatificante virtù, capaci di una fedeltà cha va «oltre la morte». È il caso di Ghismonda. Il padre, Tancredi, principe di Salerno, le uccide l'innamorato, il paggio Guiscardo. E sempre in nome dell'onore e dell'onta che va lavata, invia alla figlia il cuore dell'amante in una coppa d'oro. E lei, in nome di un altro «onore», «messa sopr'esso acqua avvelenata, quella si bee, e così muore».

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