Io, ebreo "volontario" in Israele
(...) nel senso vero della parola, che implica, per ogni ebreo, una scelta di vita prioritaria in Eretz Israel, nemmeno durante l'anno di vita trascorso in Israele, come poi dirò. Io non ho mai cessato di ritenere egualmente valida, moralmente, una scelta diversa (non era «sionista», nel senso che ho detto, neppure mio padre, anche se dava contributi alle organizzazioni sioniste). Avrei potuto, questo sì, diventare israeliano. Questo sarebbe potuto accadere, come sarebbe potuto accadere che diventassi argentino, se la guerra non fosse finita bene. La «scelta» tra vite diverse, fra un destino israeliano e un destino italiano ed europeo, fu per me serena anche se non semplice, oggetto di lunghe riflessioni durante l'anno trascorso nell'esercito israeliano e anche dopo il ritorno in Italia. Non ho personalmente obiezioni al diritto degli israeliani, come sostiene Abraham B. Yehoshua, di autodefinirsi «ebrei totali», a fronte degli «ebrei parziali» che continuano ad abitare «all'estero», nel mondo. Ma penso che ci siano in verità tanti tipi di ebrei quanti sono gli ebrei, e che siano, comunque, sicuramente «ebrei» tutti coloro (e loro soltanto) che si autodefiniscono tali; perché chi si dichiarasse ebreo senza esserlo – diciamo noi in base a una lunga esperienza di vita e di storia – sarebbe sicuramente fuori di senno. Mi sento, piuttosto, un ebreo cosmopolita, come ce ne sono stati tanti prima di me, e ce ne saranno dopo di me. Lo sono al cento per cento, come sono al cento per cento italiano. Se la somma fa più di cento, non è colpa mia, ma della storia della mia gente, e della mia vita come l'ho vissuta. Ho già indicato la ragione della mia decisione di arruolarmi come «volontario dall'estero»: mahal, così venivamo definiti in Israele, con le iniziali di mitnadvim mihuz laaretz, appunto «volontari dal di fuori di Eretz Israel», noi ebrei provenienti da paesi «occidentali»; mentre gahal, dalle iniziali di ghius mihuz laaretz, «coscritti dall'estero», erano sia gli ebrei palestinesi sia quelli sopravvissuti alla Shoah e immigrati in Israele. Era per me, molto semplicemente, intollerabile il pensiero che si volesse e potesse «buttare a mare» quella piccola comunità ebraica di alcune centinaia di migliaia di sopravvissuti: ciò che tutti gli stati arabi, respingendo la spartizione della Palestina in due stati decisa dall'Onu, dichiaravano a gran voce essere loro precisa intenzione. E a prima vista avevano, sulla carta, tutti i mezzi per riuscire nel loro intento, essendo inferiori agli israeliani in una cosa sola: che gli israeliani si battevano per sopravvivere. Ma come non credere ai capi arabi, come Abd al Rahman Pascià, segretario generale della Lega Araba, che annunciava, con il consenso di tutti: «Sarà una guerra di sterminio, un terribile massacro, paragonabile alle stragi mongole e alle crociate»? È questo che proclamavano tutti gli stati arabi, è questo che predicavano i capi religiosi islamici da tutte le moschee d'Arabia e di Palestina, invitando alla jihad, alla «guerra santa», per la cacciata degli ebrei invasori dalla «Terra dell'Islam ». C'è purtroppo una certa continuità fra quel che si diceva allora da parte araba, e quello che dicono ancora oggi i «fondamentalisti» islamici, compresi gli sciiti iraniani. Lo Stato d'Israele non sarà mai accettato – dicevano gli arabi – come non fu mai accettato lo «stato dei crociati», che dopo due secoli venne infatti distrutto. Tutto ciò non va dimenticato. Non si può capire Israele, e la durezza di certi suoi comportamenti, se non si tiene presente che questa spada di Damocle sull'esistenza del suo stato, e sulla sopravvivenza dei suoi cittadini, è rimasta e rimane fino ad oggi sospesa: anche se non più da parte di tutto il mondo arabo e islamico, grazie a Dio. Ma ancora oggi, nessun altro stato al mondo, nessun'altra nazione, si trovano sottoposti a questa minaccia. I benevoli occidentali possono permettersi di non prendere sul serio Ahmadinejad e di considerare i suoi annunci di morte certa per Israele delle sbruffonate. Israele non può permettersi di farlo. Anche perché non è stato dimenticato che un progetto per mettere a morte tutti gli ebrei, dal primo all'ultimo, è stato fatto appena una generazione fa, ed è costato quel che è costato. Sono grottesche le accuse a Israele di «strumentalizzare » la Shoah. Semplicemente, Israele, e gli ebrei del mondo, non possono dimenticarla. Già prima della mia partenza dall'Italia, e prima ancora della nascita dello stato ebraico, si era iniziata, dalla fine di novembre del 1947, mentre la Palestina era ancora governata dagli inglesi, quella che oggi gli storici definiscono la «prima fase della guerra», combattuta soprattutto fra le forze irregolari palestinesi e le forze di difesa ebraiche, Haganà e Irgùn. Questa è una storia che non ho vissuto, e che gli storici, soprattutto i «nuovi storici» israeliani come Benny Morris (i suoi libri sono stati tutti tradotti e pubblicati in Italia) con grande fair play e spregiudicatezza, hanno ricostruito minuziosamente, con il riconoscimento anche della parte di responsabilità che ebbero gli israeliani nella prima onda d'esodo palestinese. Questo periodo di scontri durissimi, nonostante la presenza militare britannica, con gli ebrei prima sulla difensiva, poi all'attacco, portarono di fatto alla sconfitta delle forze militari irregolari arabo-palestinesi, e all'esodo di 200 o 300 mila arabi palestinesi, che ebbe inizio prima del fatidico 15 maggio del 1948 e che fu in buona parte volontario. Motivato in molti di loro dalla paura, in altri dalla speranza, di tornare presto alle proprie case, e magari di occupare quelle degli ebrei dopo che gli stati arabi avessero distrutto lo Stato d'Israele, come sembrava probabile. Esodo solo in piccola parte forzato, anche se vi furono alcuni orrendi ma del tutto isolati casi di massacri, dall'una come dall'altra parte (...)