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Non ci sono più dispersi nel terremoto dell'aquilano.

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Purtroppoce ne saranno altre, perché tra i 1.200 feriti forse duecento sono molto gravi e in pericolo di vita. Tuttavia la prima emergenza del terremoto è finita, le macerie ormai non restituiranno più né vivi né morti. L'angoscia e lo stress dei parenti, dei vigili del fuoco e dei volontari della protezione civile e di altri gruppi di esperti si sono certamente allentati, almeno un poco. Gli scampati alla tragedia e i profughi hanno trovato rifugio precario e temporaneo in tende, roulotte, vagoni ferroviari, alberghi turistici lungo la costa, case di parenti e di amici, e centinaia di cucine da campo provvedono ad assicurare alle tendopoli dei cibi caldi. Insomma i problemi più drammatici del terremoto sono alla spalle; ne rimangono molti altri, che si potranno risolvere soltanto nel corso dei mesi e degli anni. Si cerca, prima di tutto, di fare ogni cosa possibile per creare nei terremotati l'impressione di un iniziale ritorno alla normalità. Tutte le creature viventi hanno necessità di vivere dentro un ordine, inserite nel sistema delle proprie consuetudini. L'uomo più di tutte le altre. Così lo sforzo di tanti esperti e volontari è innanzitutto quello di riunire le famiglie, perché i rapporti affettivi vengono prima di ogni altra cosa. Poi di fare in modo, quando è possibile, che si possano riprendere i lavori consueti. Se non è possibile farlo subito perché fabbriche e laboratori artigiani sono stati danneggiati o distrutti, bisogna ripristinarli al più presto. Ricordo che dopo il terremoto del Friuli era convinzione di tutti, da Giuseppe Zamberletti, commissario governativo per la ricostruzione, a Luciano Di Sopra, grande architetto-urbanista carnico, ai sindaci dei paesi disastrati che prima di ogni altra cosa si dovessero ricostruire le fabbriche. Giustissimo. Era vera la sensazione di una certa normalità, la gente deve riprendere il suo lavoro al più presto. Ciò anche per ragioni economiche, e perché è della massima importanza che i terremotati, anche se ricevono aiuti in tante forme diverse, non si aspettino che i loro problemi siano risolti completamente dall'alto, ma collaborino al massimo al ripristino di una situazione normale. Per fortuna la gente d'Abruzzo è seria, lavoratrice, dignitosa, ed è subito entrata in questo ordine di idee, così come è accaduto in Friuli trentatre anni fa. Dunque prima di tutto le fabbriche e le botteghe artigiane. E le case? È comprensibile che i terremotati desiderino che si metta subito mano alla loro ricostruzione, ma non è possibile. Per ora dovranno accontentarsi del ripristino e del rafforzamento delle case ancora abitabili, per renderle adatte a nuovi prevedibili terremoti del futuro. «Dove la terra ha tremato, tremerà ancora» scrisse già duemila anni fa Plinio il Vecchio in «Naturalis Historia». Dopo le tende dovranno venire i prefabbricati di legno che si montano in un paio di giorni non è possibile affrontare i rigori dell'inverno sotto le tende. Anche in Friuli i terremotati volevano subito le case, ma chi guidava la ricostruzione, e in prima fila il provvidenziale Zamberletti, li convinse che la cosa non era attuabile. Recuperare almeno un poco il sentimento della quotidianità vuol dire anche far funzionare le scuole, sia pure sotto grandi tendoni; vuol dire provare spazi per i giochi dei bambini e dei ragazzi. Vuol dire costruire dei prefabbricati per gli uffici pubblici, come il Municipio, la Prefettura, la Tenenza dei carabinieri, l'Ufficio Postale e così via. Vuol dire affidare agli psicologi il compito di conservare vivo nei terremotati il sentimento di appartenenza a una comunità, che la diaspora può minacciare, può addirittura dissolvere. E vuol dire anche indagini di esperti e magistrati per accertare con quali materiali siano stati costruiti tanti edifici, relativamente recenti, come la Casa dello Studente e l'Ospedale, e avrebbero dovuto resistere alle scosse. Un sisma di intensità 5,8 della scala Richter in Giappone non produrrebbe che qualche crepa; nel Friuli la scossa distruttiva fu di qualche decimo più forte. Avrebbero dovuto essere danneggiate e distrutte soltanto costruzioni vecchie o antiche, con muri di pietre e di sassi di fiume. Ciò vuol dire che a volte si è costruito male, senza veri criteri antisismici e con materiali scadenti. La responsabilità di costruttori e controllori va accertata e punita. Il diffuso costume italiano di costruire alla carlona deve finire. L'Italia è un paese quasi per intero minacciato dai terremoti, ed è un sacro dovere costruire edifici antisismici e sicuri. E perché gli ingegneri edili e impresari non approfondiscono le conoscenze e le tecniche costruttive giapponesi, ossia del paese più sismico del mondo? Ma al di là di tutti gli aspetti tecnici e materiali della ricostruzione si è visto da cento segnali l'importanza del fatto morale, della forza d'animo dei terremotati. La speranza si è presto mescolata e sovrapposta al dolore e allo strazio delle morti, le ferite e le distruzioni. E questa speranza è spesso alimentata dalla fede religiosa, ancora forte nella popolazione abruzzese, e in particolare a quella parte di essa che appartiene alla civiltà contadina. La fede nell'aiuto divino alimenta anche la carità, la solidarietà, la pietà. Non per nulla fede, speranza e carità sono legate insieme, come virtù teologali, dalla sapienza millenaria del cristianesimo. C'è anche, importantissima, una ricostruzione che avviene nelle coscienze, ed anche in esse è da accertare sempre l'origine di ogni cosa.

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