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Il tempo di Cristo, eterno quanto quello dell'arte

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Lo sostiene un critico laico - come si dice oggi - pur di radice ebraica come George Steiner nel suo "Vere presenze". E un'idea del genere, come ricorda Giovanni Chiaramonte, si trova espressa da alcuni grandi fotografi - anch'essi di matrice ebraica - a proposito della forma d'arte della fotografia, la quale "ferma" un istante, un'immagine, un volto in quel momento di tempo e non più di tempo. Il Sabato inteso come momento che appartiene non solo al tempo umano. L'arte è un gesto-ponte che sta sospeso tra un tempo calcolabile, ad esempio con la stessa storia delle date di composizione, o della intera vicenda di quella forma, e un tempo che invece ci sfugge, che si apre in tutte le direzioni, compresa quella dell'eterno o del tempo interiore. L'arte, si potrebbe dire, è un'esperienza speciale del tempo. Sono pensieri che vengono nei giorni di Pasqua. Nei giorni che hanno stravolto la serie dei giorni. Che hanno in un certo senso deviato, o meglio, fatto fiorire la direzione delle ore. Da quell'alba di Resurrezione il tempo non è più successione micidiale, perdita di forza o, nei casi fortunati, costruzione di qualcosa di duraturo, almeno fino a un certo limite. No, è iniziato un altro movimento nel tempo. Un movimento non solo lineare ma fiorente. La fioritura dell'eterno nel tempo. Cristo seme morto e risorto. Da qui la possibilità di sperimentare un Sabato che portando e modificando la grande tradizione ebraica si fa da tempo dell'onore e della Legge a tempo dell'attesa e della misteriosa preparazione. L'arte è un modo per sperimentare il Sabato ogni giorno. Il grande Baudelaire si spinge a dire, nella poesia I fari ("les phares") contenuta nel suo unico tormentato libro, i Fiori del Male, che ogni opera d'arte somiglia a un avviso dato da "mille sentinelle", a un segnale dato da "cacciatori perduti nei grandi boschi", a fiaccole sulle città. A un singhiozzo che viene a "morire, Signore, ai piedi della vostra eternità!", offrendo in tal modo il segno più chiaro della "nostra dignità". Nella esperienza della bellezza le caratteristiche di una inquieta "promessa". Di un tempo teso a qualcosa che deve compiersi, un Sabato che si inarca tra tutte le contraddizioni storiche del Venerdì e l'alba luminosa della Domenica. Questa concezione e tale esperienza dell'arte trova oggi molte contestazioni e diversioni. La negazione di qualcosa d'altro dalla Storia e la abrasione dall'orizzonte artistico di ogni dimensione spirituale hanno finito per consegnare l'arte non tanto alla "giustizia" o a una più corretta relazione con la società (una sua collocazione nella ferialità, nella "normalità") bensì a una museificazione preventiva (spesso l'arte contemporanea esiste solo grazie al museo), a un cedimento al mercato - inteso non più come mecenatismo o committenza, ma puro denaro - e infine alla marginalizzazione tra le forme di intrattenimento. La sottrazione dell'arte al tempo del Sabato non l'ha consegnata, come si pretendeva, alla ferialità democratica, ma all'ora snob dell'happy hours. Ma tale concezione per quanto insegnata in mille e mille università e su molte tribune di giornali non riesce a cavare dal cuore degli uomini lo sguardo del Sabato. Che è quello con cui scrutiamo, inquieti di pena ma anche di speranza, i segni umani che diventano arte.

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