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Il diario sentimentale

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GiuseppeAmoroso Narratore raffinato e intenso, capace di interpretare in noti romanzi, come «Ferito a morte» e «Amore e psiche», il senso di vuoto, di grigiore e inappartenenza al proprio desolato tempo e pure l'«impazienza» nel sofferto cammino di un adolescente verso la delusiva scoperta della realtà; e saggista di ampi orizzonti, dotato di un corredo di immagini fantastiche, in grado di articolare in invenzioni spiazzanti e in una scacchiera di simboli l'indagine critica e le proposte di poetica, Raffaele La Capria ci dà oggi un brillante e pensoso diario di viaggio con «America 1957. A sentimental journey» (Nottetempo, pp. 69, Euro 7). Invitato dall'Università di Harvard a un seminario internazionale, lo scrittore napoletano annota le sue esperienze in un taccuino nel quale gli episodi circoscritti e fuggitivi si trasformano in misure ritmico-narrative che, attraverso vampe di colori, controcanti, riflessioni, possiedono una salda autonomia espressiva, un campo lungo romanzesco, una sciolta affabulazione. I motivi che si fanno sostegno dell'agile struttura dell'opera rivelano le psicologie dei personaggi centrali e il viavai delle figurine. Riviste a distanza di cinquant'anni, le impressioni di quell'impatto con gli States si affidano a un distacco bisognoso dell'intervento dell'autore il quale si affaccia con limpida e mai perduta partecipazione sui giorni di quell'avventura. L'avvio è dato dal "cuore che non andava più per il verso giusto" e, insieme, da una febbrile "disposizione alla felicità". Lungo questi due canali del sentimento si sviluppa il resoconto granulare e molteplice che mescola vicende giornaliere e sorriso, adunando minime circostanze quasi con la calcolata nostalgia di chi sa che sono già pronte a svanire nell'imbuto dell'oblio. Ma anche con l'ansiosa curiosità di chi è lesto a cogliere nell'incessante andare dei giorni un nuovo varco verso un'occasione che può riservare un brivido, l'insidiosa magia dell'ignoto quando si maschera di routine. Ed ecco aneddoti e cronachette nell'infinito spazio americano: le reti autostradali e i motel, gli strani cimiteri ("al posto delle croci si vedono tanti paletti con un microfono") e i luoghi dove il pensiero corre ai vivi che li hanno abitati; il barbaglio accecante di parcheggi che danno l'illusione del mare e i silenzi stracciati dal volo dei gabbiani; e, come uscite da libri di fate, le villette, attrezzate per le imbalsamazioni, in cui i cadaveri giacciono "sdraiati nelle loro casse come mummie". Si affaccia appena un segnale macabro, e subito il grottesco di quei morti - "pacchi abbandonati nell'ufficio di uno spedizioniere" - allunga l'ombra nera verso la visione di un mondo senza tempo che intende cancellare anche la fine. Intanto, la musica delle radioline dei bagnanti su una spiaggia rovente è un "biblico murmure" mentre arrivano altri volti: ora ripresi con un marcato gusto del ritratto, come la vecchietta "col cappellino rosa" che incarna una tipologia comune, quella "su cui si regge l'equilibrio del mondo", ora, come la signora monumentale, uncinati da un guizzo di scrittura che li stampa su un'"allegoria". Poi, il "riso verde" di un raccontino a effetto (in una strana prigione che ricorda uno stadio) crea un'atmosfera sospesa che invade la monotonia delle onde solcate dalla nave del ritorno. Lì si perde lo sguardo di La Capria, "incenerito" dall'angoscia dell'oceano. Sarà l'azzurro del Mediterraneo a far scoprire allo scrittore la sua storia, immedesimandolo nelle "cose non più mute e senza nome", e a ridonargli la gioia degli innamorati "cenni di saluto" che arrivano improvvisi dalla banchina del porto di Napoli.

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