Mendini: «La mia vita in un cavatappi»

{{IMG_SX}}«Il mio mestiere è quello di inventare oggetti che rendano gradevoli le case delle persone, riempiendole di amore psichico. Ma quel che è successo in Abruzzo, tutta quella tragica distruzione, mi fa riflettere molto. È veramente difficile fare delle cose belle per un mondo che trema e traballa, in tutti i sensi». Eccolo Alessandro Mendini, classe 1931, uno dei maggiori designer ed architetti del nostro tempo, umile e sensibile creatore di forme sempre sorprendenti, ma soprattutto attente al rispetto dei valori umani. Da ieri e fino al 6 settembre il Museo dell'Ara Pacis, a Roma, ospita una sua ampia e vitale mostra antologica, coloratissima e piena di ironia, che squaderna davanti ai nostri occhi duecento sue produzioni di design, oltre modelli, schizzi, disegni. L'esposizione, curata da Beppe Finessi, si intitola «Dall'infinito all'infinitesimo» proprio per sottolineare tutti gli aspetti della sua inesauribile creatività. E così anche noi ci siamo avventurati in una conversazione a tutto campo con Mendini, vincitore per ben due volte del prestigioso Compasso d'oro per il design. Cominciamo da quanto è successo in Abruzzo... «Che dire? Forse anche noi architetti abbiamo le nostre responsabilità. Questa tragica vicenda rafforza in me una convinzione: il mio lavoro è ottimistico ma il mio pensiero più profondo è invece pessimista. Come si fa a non avvertire tutta la violenza che c'è nel mondo, le forze incontrollabili della natura, il carattere effimero della nostra vita?» Ecco, ma parliamo dell'architettura di oggi, delle «archi-star» e dei loro edifici sempre più strabilianti. «Guardi, non mi tiro indietro, probabilmente io stesso faccio parte di quel sistema che ora criticherò. La grande architettura di oggi rivela una bravura stilistica enorme. Ma ha un limite altrettanto immenso: è un'architettura di speculazione. L'architetto dovrebbe riacquisire una coscienza critica. Molti edifici di oggi ci meravigliano per la loro forza, per la loro potenza, ma sono distanti da noi, sono scostanti. E ci metto in mezzo pure il design, anche se preferisco usare il termine di arti applicate. Il discorso è lo stesso: c'è troppa attenzione alla tecnologia e alla ricerca dei materiali per realizzare un oggetto che è una pura sperimentazione tecnica. Si è perso l'umanesimo dell'oggetto. E invece bisogna tendere alla ricerca di una nuova moralità e di un atteggiamento critico verso la mercificazione che è tiranna nella nostra società. Auspicherei invece l'utopia di un nuovo radicalismo e di un nuovo umanesimo». È anche per questi motivi che i suoi oggetti richiamano spesso forme antropomorfe? «Lei allude in particolare ai miei cavatappi che diventano personaggi, che so, un angelo, un diavoletto, un carcerato, un re. Sì, in fin dei conti tutti i miei oggetti sono personaggi di una commedia dell‘arte. C'è quello antipatico, lo stupido, l'eroe, l'ingenuo e via discorrendo. I miei progetti sono quasi narrativi, propongono un racconto autobiografico. Ed infatti inizio scrivendo. Ma vorrei che i miei oggetti facessero pensare chi li usa secondo atteggiamenti rituali e cerimoniali. Immagino oggetti, architetture ed ambienti tesi ad oltrepassare i confini pratici, come fosse discreti sacerdoti dei movimenti quotidiani. E invece oggi si usano gli oggetti in maniera volgare, solo per fini funzionali». Lei come si definirebbe? «Mi considero come un operaio che lavora dalla mattina alla sera. Mi piacerebbe essere stato ed essere tuttora anti-accademico, libero, completamente autonomo, paradossale ed autoironico. Credo nella vitalità e nell'arricchimento della contraddizione. Per questo ho inventato degli slogan paradossali che si riferiscono al mio lavoro: il "robot sentimentale" (un uomo moderno ancora sensibile ma parzialmente meccanizzato), gli "oggetti senza tempo" (non legati cioè ad una moda), il "de-progetto" (un progetto capace di togliere invece che di aggiungere), l'"antiquariato istantaneo" (le mode dei revival finiranno quando ci sarà il revival dell'oggi stesso!)». Un'ultima domanda: l'individuo e i suoi sogni verranno sommersi dalla globalizzazione? «È una questione fondamentale a cui cerco di rispondere implicitamente col mio lavoro. Credo molto nel valore del frammento individuale. E penso che la qualità della massa dipende dalle qualità del singolo che la costituisce. L'individuo va curato e coccolato. Del resto, mi passi il paragone, la bellezza della via lattea o delle nebulose dipende anche da quella delle singole stelle che le compongono».