L'8 aprile del 1341 Francesco Petrarca è incoronato "poeta et historicus" in Campidoglio.
Nelsettembre del 1340 gli erano giunte due offerte: una dall'Università di Parigi, una dal Senato romano. Non aveva avuto dubbi sulla scelta. La "laurea" era il segno visibile della sua gloria poetica. E a tanti altri "segni" rinviava. Era il "lauro", femminile in latino, e cioè l'alloro, "pianta della profezia, della verginità, del genio o angelo custode", che doveva cingere la fronte di ogni uomo illustre; era "l'aura" o l'"aria" ovvero lo spirito di sapienza, che è luminoso e "sottile"; era l'"auro", il metallo risplendente di luce solare; era Laura, la donna amata, e il suo aureo crine, "simbolo dell'etere che avvolge il cielo come la chioma il capo". Una visione e un sublime gioco di parole: "erano i capei d'oro a l'aura sparsi". L'oro, l'aura, Laura. E il lauro, il trionfo. In "Le meraviglie della natura" (Bompiani, 1975), Elémire Zolla, studioso di simbologia, ha "svelato" Laura come pietra filosofale, oro alchemico e dottrina segreta. "Laura è l'aura impregnata di fuoco, lo spirito che plasma la materia, la Sapienza: "uno spirito celeste, un vivo sole/ fu quel ch'io vidi"(Canzoniere, XC). Laura è la teofania". Dunque, una divina manifestazione. Forse, Francesco De Sanctis non sarebbe d'accordo con questa lettura esoterica del "Canzoniere". Eppure il Petrarca, parlando di Laura, parla, sì, di una donna in carne ed ossa, con una sua precisa configurazione storica, ma ne disegna anche il profilo nascosto, scavando in immagini cariche di allusioni e suggestioni "magiche". Lo stesso intellettuale, militante e trionfante, che prende congedo dal Medioevo e che ci appare così "nuovo" con le sue inquietudini, le sue contraddizioni, la sua tensione verso l'alto, la mai sopita fascinazione dei sensi e il perenne desiderio di gloria, scrive poesie dal significato "plurale". Proprio come facevano i trovatori, gli stilnovisti, Dante e gli instancabili cercatori del Graal. Certo, Petrarca elegge a sua cifra la romanità e le "humanae litterae", vuole la restaurazione dell'antichità e scrive epistole a Cicerone, Seneca, Quintiliano, Tito Livio, Orazio, Virgilio, Omero, con cui, scrive De Sanctis, "viveva in ispirito". Ed è vero che se quella di Dante è una vita per l'Imperatore e i valori della Tradizione cristiana, quella del Petrarca si apre "all'aurora del rinnovamento". E avrà il suo eroe in un "homo novus", un "vir" e un "orator" magnanimo come Cola di Rienzo, il tribuno che, dall'alto del Campidoglio, parlerà di un'Italia "romana e latina", dunque fiera di una eredità illustre dove la memoria è la stessa cosa della lingua e dove è d'obbligo per gli uomini di cultura riattivare/ravvivare l'una e l'altra in nome delle civiche virtù. Petrarca è ben consapevole di questo e a questo "dovere" consacra la sua esistenza, ottenendo dal Senato di Roma un segno/insegna di riconoscimento. Eppure...Eppure lo stesso De Sanctis dice che gli "sta male" l'abito di Cicerone. Piuttosto gli si addicono i panni dell'"anacoreta" o del "santo": "la sua vera vita" - scrive il critico - "fu tutta al di dentro di sé; il solitario di Valchiusa fu il poeta di se stesso". E l'amore? Quale la differenza tra Laura e la Beatrice dantesca? Leggiamo: "Dante alzò Beatrice nell'universo, del quale si fece la coscienza e la voce; egli calò tutto l'universo in Laura, e fece di lei e di sé il suo mondo. Qui fu la sua vita, e qui fu la sua gloria". Eppure l'autorevolezza di questo "ipse dixit" non esclude differenti interpretazioni dell'opera petrarchesca. Perché Beatrice non è solo "sviluppata dal simbolo e dalla scolastica" e Laura non va intesa solamente nella sua "chiarezza e personalità di donna". I "miti", i "simboli", le "astrattezze teologiche e scolastiche", resistono, eccome. E se il corpo della bella donna, i capelli d'oro, il collo levigato, le bianche mani, il dolce viso scaldano l'immaginazione dell'amante e ispirano il poeta, Laura non è solo "forma" che diventa poesia come Beatrice non è unicamente "velo o simbolo di qualcos'altro". L'una e l'altra, infatti, hanno un corpo e una vita, ed entrano con forza dirompente nella vita dei nostri poeti. Tutte e due "significano" bellezza, grazia e mistero. La carne e lo spirito. La Donna. Esperienza ed ispirazione "privata" ed aspirazione "esemplare". Perché nel suo punto più alto, storico e simbolico, la Donna è la Madonna. E Dante e Petrarca cantano il suo Trionfo: "Vergine e madre, figlia del tuo figlio,/ umile e alta più che creatura,/ termine fisso d'eterno consiglio, / tu se' colei che l'umana natura/ nobilitasti sì, che 'l suo fattore/ non disdegnò di farsi sua fattura" (Paradiso, XXXIII). "Vergine bella, che di sol vestita,/ Coronata di stelle, al sommo Sole/ Piacesti sì, ch 'n te sua luce ascose,/ Amor mi spinge a dir di te parole;/ Ma non so 'ncominciar senza tu' aita,/ E di colui ch'amando in te si pose"(Canzoniere, CCCLXVI).