Il ratto delle Sabine è anche festa campestre

Ecosì questa vicenda carica di violenza ma pure di un conturbante erotismo è anche il cuore della mostra «I Sabini popolo d'Italia», inauguratasi ieri nel Complesso del Vittoriano, aperta fino al 26 aprile e coordinata da Alessandro Nicosia. Centoventi tra reperti archeologici, codici, antiche carte geografiche, miniature, quadri, sculture e disegni, ricostruiscono la storia e il mito dei Sabini, insediatisi a partire dal X-IX secolo a.C. In un ampio territorio fra Umbria e Lazio, il cui centro nevralgico era intorno l'odierna Rieti. Come gli altri popoli italici, anche i Sabini furono sottomessi dai Romani ma seppero trasmettere ai loro conquistatori una certa raffinatezza. Non a caso Fabio Pittore nel III secolo a.C. scriveva che «i Romani per la prima volta compresero cosa fosse la ricchezza quando diventarono signori di questo popolo». Fra i reperti più importanti in mostra, spiccano il cippo di «Cures», con una rarissima iscrizione in lingua sabina, il pregevole lituo in ferro usato dai re-sacerdoti e il trono in terracotta del re di Eretum. Ed eccoci infine al «Ratto delle Sabine», perpetrato dai Romani per procurarsi delle mogli e assicurarsi la prosecuzione della propria stirpe. La vicenda mitica, conclusasi con la pacificazione tra i due popoli per iniziativa delle donne sabine, è variamente interpretata nei capolavori del Sodoma, Giambologna, Poussin, Luca Giordano, Tiepolo, fino a tempi a noi più vicini, con Arturo Martini, Primo Conti e Franco Gentilini, capace di immaginare una specie di vitale festa campestre invece che un atto di violenza. Ma il «Ratto delle Sabine» è rivissuto anche attraverso le poesie di Trilussa e attraverso il cinema, con il grande Totò e con le suggestioni esercitate dalla vicenda leggendaria su «Sette spose per sette fratelli», di Stanley Donen (1954).