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"Continuo a inseguire sogni in questa nostra Italia così violenta e inebetita"

Renato Zero

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{{IMG_SX}}Rino Gaetano non era contento del suo cilindro di Feltro. Gli pesava in testa, gli opprimeva i pensieri, e per creare una magia non devi sentitrti schiacciato dalla forza di gravità. In suo soccorso arrivò Renato: "Era il '78, stava preparandosi per Sanremo, avrebbe cantato "Gianna". Pensava a una trovata scenica con un chitarrino, mentre quel cappello proprio non lo convinceva". Zero sospira e prosegue: «Così gliene regalai uno che avevo in casa, di quelli da prestigiatore, piatto come una sogliola. Lo scuotevi con la mano e si apriva, era leggerissimo: dissi a Rino, ti porterà fortuna per la carriera». Eravate buoni amici. «Gli volevo così bene. Lo vedevi sul palco con quella rabbia incontenibile, poi lo ritrovavi al bar dell'Rca e ti appariva indifeso, disarmante. La sua timidezza lo fregava, nei rapporti umani. Fosse vivo oggi sai che repertorio. Magari avremmo inciso un disco insieme: è un rimpianto come quello di non aver lavorato con Ivan Graziani. Che non era chiuso come Rino, era più caciarone, sapeva mostrare la propria intimità, pur conservando la sua riservatezza». Guardiamo ancora nell'album dei ricordi? Patty Pravo. «Ci siamo frequentati tanto, dal Piper in poi. Me la sono portata spesso a casa, ma Nicoletta è un po' insofferente. Ha forse paura dei sentimenti, di svelarsi, innamorarsi. L'ultima volta l'ho vista in studio, due anni fa. Spero sempre in una sua telefonata, ma non arriva mai. Vorrà dire che proverò a chiamarla io». Loredana Bertè. «Voglio solo che lei stia bene. Ora mi sta a cuore la sua serenità». Fellini: com'era la storia della corsa in moto? «Monta sul mio sidecar a piazza del Popolo, e mi dice: amoooree, facciamo un giretto. Pensavo di dare due sgassate e lasciarlo subito da Rosati, ma Federico mi ripeteva: andiamo, andiamo. Arrivammo fino a via Appia, lui sorridente con la sciarpa grigia tesa al vento». Lei lavorò in tre film del Maestro. «Particine in "Casanova", "Roma" e soprattutto "Satyricon". Rino Carboni mi truccava per ore la faccia applicandovi protesi di lattice, poi ci dipingeva sopra. Giravamo sempre di notte. È stato un privilegio conoscere l'uomo Fellini, che non valeva meno del poeta, del regista, del sognatore. Troppi film gli frullavano per la testa, e lo sceneggiatore Bernardino Zapponi mi confermò che molti non furono mai girati. Perché Federico operava d'istinto, febbrilmente. Quando non era convinto di un progetto lo lasciava a macerare per mesi, e poi addio». Lei, Zero, ha qualche disco rimasto irrealizzato? «Semmai ne ho registrati troppi: del resto io sono l'uomo degli eccessi. Rifarei di sana pianta "Artide Antartide": vendette da dio, ma la realizzazione e gli arrangiamenti erano molto scollati dalla mia idea di partenza. Mentre invece piango ancora l'insuccesso di due album fortissimi come "Leoni si nasce" e "Soggetti smarriti"». In questo, "Presente", lancia nuove sfide. «Sin dalla copertina: io guardo avanti, e tutti gli altri nell'altra direzione. È dai tempi di "No mamma no" che mi prendo le mie responsabilità di artista e di essere umano, con questi valori e sentimenti che pur stressati e dissociati mi sono ancora rimasti attaccati addosso. Ho ancora voglia, a 58 anni, di fare quattro chiacchiere con la vita». Autoprodurre il cd è coraggio o incoscienza? «Non ne potevo più del pessimismo dei discografici. Dobbiamo difendere la musica italiana, che rischia di essere spazzata via dalle scelte delle multinazionali: a parte il Sudamerica, dove la esportiamo? E qui, gli addetti ai lavori non se la sentono di investire, di rischiare. Lamentano la crisi e si mettono paura se proponi una collezione ricca, come "Presente", in cui trovi 17 canzoni. La colpa di quel che accade non è degli artisti: molte etichette sono sparite, e quanto ai giovani, chi li tutela?». Per fortuna ci sono i talent-show televisivi. «I coach di programmi come "X Factor" o "Amici" richiamano alla mente la leggendaria figura dell'assistente musicale. Li trovavi nei corridoi della Ricordi o della Rca, e nelle loro mani c'erano le sorti di una canzoni. Suggerivano l'intonazione a esordienti come Endrigo o Paoli, e il gioco era fatto. Ora però tutto questo lo vedi in tv: fossi al posto di quei ragazzi scapperei a gambe levate. Neanche sono nati, come cantanti, e gli sbattono addosso sette telecamere, con i maestri che li nevrotizzano a forza di suggerimenti. Tutto questo mi disturba».  A proposito di tv. Visto Povia a Sanremo? «È grave se l'interesse del pubblico debba essere esposto a una forma di morbosità, a tutto danno dell'obiettività. Non si può far polemica per cercare il successo, forzando deliberatamente la realtà su temi così delicati». Sul disco c'è un pezzo, «L'ormonauta», dedicato ai forzati del sesso. «Anche queste sono creature di Dio, eheheh. Vedi in tv questi palestrati, gonfiati di anabolizzanti e ti aspetti chissà cosa. Se li spiassimo in azione, sai che fischi. Oggi lo stress della performance ci uccide, come quando da ragazzini ci portavano a mignotte per "iniziarci": ovvio che, davanti alla "panterona", arrivasse la mortificazione. Il sesso andrebbe vissuto come un'opportunità per conoscere le altre persone: desiderare vuol dire idealizzare. E anche quando sai che non sarà il partner della tua vita, dì dieci avemarie e fai comunque l'amore: capirai molto di te, in chiave spirituale». Chi è oggi il "diverso"? «Qualcuno su cui la società specula in modo molto più crudele che in passato». I n che modo? «Vai in certi alberghi a sette stelle, selezioni il loro canale tv e ti informano che destineranno parte del tuo conto ai bambini in Africa. Questa è una strumentazione paracula: perché dirmelo? Fatelo e basta. Mettano il cuore oltre lo sponsor. Altro esempio: ci sono bambini con malattie rarissime e le industrie farmaceutiche e i medici non trovano la cura, perché non ci guadagnano. E invece quei ragazzini non possono essere lasciati morire: anche se sono tre al mondo, devono essere tutelati come fossero milioni». Come ha vissuto la vicenda di Eluana? «Male. Nessuno sa davvero immedesimarsi nei protagonisti di storie così dolorose. La chiave di lettura è nella parentela. Capire cosa significhi essere il padre, o la figlia che giace su quel letto da un tempo interminabile. Attorno a loro, ogni giudizio dovrebbe essere sospeso. Il valore della vita è immutabile, e nessuno poteva permettersi di affermare che quella di Eluana valesse meno. Se parliamo di accanimento terapeutico, lo considero una inutile violenza. Ma non riuscirei a smettere di alimentare una persona di cui ignoro il livello di sofferenza. E trovo sbagliato che la sentenza sia emessa da un magistrato o da un prete: ogni decisione deve essere presa da una comunità che dialoga, invece di spaccarsi. In un momento tanto grave, quella famiglia non doveva essere lasciata sola. Questa sarebbe stata civiltà». Siamo tutti "soggetti smarriti", Renato? «Troppi avvenimenti ci colgono alla sprovvista. Non siamo più abituati alla piazza, allo scambio, al confronto. Una volta ci annusavamo, mischiavamo le idee. Anche l'extracomunitario resta sulle sue posizioni, non cerca l'integrazione. Se giro per Roma e parlo in dialetto con i bottegai, quelli non mi capiscono. Sono arrivati qui massicciamente, ed è giusto offrir loro una mano tesa e una minestra: ma intanto abbiamo perso tutti la capacità di ragionare insieme e di comprendere i nostri valori. Restiamo inebetiti. Per dire: non riusciamo ad essere disperati neppure se stuprano una creatura in un parco. E invece, di fronte a certe scelleratezze, dovremmo reagire». Si spieghi. «Lo dico in una canzone, "Almeno una parola": di fronte al dolore e al disagio la difesa migliore non è l'omertà o la rassegnazione, ma il ripristino di una più completa vita sociale».  Ma a chi è rivolta questa parola? «A tutti. Perché cittadini onesti e malviventi sappiano che ci sono regole da far rispettare con fermezza. Siamo tutti esposti ai soprusi. Non invoco la frusta o una repressione violenta, ma non possiamo restare inermi di fronte al dramma di una ragazzina abusata, il cui carnefice magari esce il giorno dopo di prigione. In qualche modo, è figlia di tutti noi. Proteggiamola». Ne "Il sole che non vedi" canta: "La violenza è il nuovo Vangelo/Cristo non c'è". «Ho paura che la legge del più forte oscuri la continuità della Fede. Io sono cattolico e invoco Cristo, il laico potrà chiamarlo come vuole, ma neppure lui vorrà veramente sbarrarsi la porta di un futuro più luminoso per questa esistenza». E in un altro pezzo, "Ancora qui", ipotizza: "Finalmente arriva il giorno in cui fai pace con te stesso". Ci siamo? «La rincorriamo sin dal momento in cui veniamo al mondo, e riusciamo perfino ad accettare la morte perché ce la fa intravedere, quella pace. Ma io sono sempre arruolato per qualche guerra, con quest'inquietudine che zampilla dentro di me». Confessa: "Non smetterei più", e ripete che "questa mia vita è un eterno concerto". «È perché temo di svegliarmi in un mondo dove non ci sia più un angolo dove montare un palco per cantare. È già accaduto con le sale da cinema: oggi ci trovi parcheggi, centri commerciali. E siamo costretti a vederci i dvd in salotto, sconfitti dalla solitudine, senza più poter condividere una risata o una lacrima. Anche per questo, sono ancora qui».

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