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Oggi al Quirinale si leggono i suoi versi. E la lezione di De Sanctis

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Nonc'è studioso della poesia leopardiana che, di fronte ai primi tre versi della «Sera del dì di festa», non si sia profuso in esercizi di ammirazione. E come non farlo di fronte a un "paesaggio" di così compiuta bellezza, dove tutto è immerso nella serenità di una natura affettuosamente "complice" e lo sguardo contemplativo si accorda a un linguaggio di rara intensità formale! Già, la "forma". Ma, per Francesco De Sanctis, essa non chiude il poeta di Recanati nella torre d'avorio di un lirismo tanto perfetto quanto estraneo al mondo e alla storia, non è qualcosa di diverso dal contenuto, "anzi è generata dal contenuto, attivo nella mente dell'artista: tal contenuto, tal forma". Va superata la concezione romantica che fa dell'arte una espressione del sentimento, perché se così fosse, fare poesia sarebbe abbandonarsi a un flusso emozionale torbido, confuso, indistinto, mentre la materia va dominata, imprimendo su di essa il sigillo della propria personalità. Il che significa essere dentro ad un tempo e ad uno spazio, ma con una precisa autonomia: l'arte non è al servizio di nessuno, non è retorica né didascalica né pedagogica, non subisce i condizionamenti della moda, ma, in quella fusione di forma e contenuto che deve essere la cifra dell'artista, ci offre dei modelli di "umanità". Ma può la poesia cantare dei "valori" senza perdere la propria originalità? Ebbene, De Sanctis proprio questo cerca e celebra: la persona che, senza nulla smarrire di sé, e anzi proprio perché nulla smarrisce di sé e dà voce a un mondo interiore plasmato dal pensiero e tradotto in forma, interpreta il proprio tempo. Nella ricchezza di inquietudini e contraddizioni, "liberate" dalla voce poetica che canta un destino privato e lo rende universale. E se di questa eroica "sintesi" di esperienza personale e di tensione civile, Dante è l'interprete più rappresentativo, non si pensi a un Leopardi fiero del proprio aristocratico pessimismo, scettico e lontano da ogni impegno. Basti pensare agli "effetti" che la sua poesia "produce". Decisamente "contrari" a quel che "propone". Infatti, Leopardi "non crede al progresso, e lo fa desiderare: non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo che non ti senta migliore... E mentre non crede possibile un avvenire men tristo per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t'infiamma a nobili fatti. Ha così basso concetto dell'umanità, e la sua anima, alta, gentile e pura l'onora e la nobilita. E se il destino gli avesse prolungato la vita infino al quarantotto, senti che te l'avresti trovato accanto, confortatore e combattitore". Leopardi sulle "barricate" del '48? Chissà... Certo, Giacomo, a vent'anni, ha il cuore che palpita di eroici ardimenti e vorrebbe combattere per una patria che ancora non c'è, ma che per lui è un "mito", fondato sul culto di una classicità tramata di generosi slanci individuali e civili. Leopardi vuol combattere e testimoniare, e alla sua nobile idea di una comunità radicata in valori e memorie che possono diventare attuali, dedica tre commosse poesie "politiche": " All'Italia", "Sopra il monumento di Dante", "Ad Angelo Mai". Sarebbe sbagliata, però, l'immagine di un giovane intellettuale suggestionato da reminiscenze letterarie e retoriche da riproporre attraverso un lirismo turgido ed enfatico: perché Giacomo è capace di riflessioni acute e spietate. Come questa, vergata il 3 luglio 1820 nel suo "Zibaldone": «Ed ecco un'altra bella curiosità della filosofia moderna. Questa signora ha trattato l'amor patrio di illusione. Ha voluto che il mondo fosse tutto una patria (...). L'effetto è stato che l'amor di patria non c'è più, ma invece che tutti gli individui del mondo riconoscessero una patria, tutte le patrie si sono divise in tante patrie quanti sono gl'individui, e la riunione universale promossa dalla egregia filosofia s'è convertita in una separazione individuale». E tuttavia il disincantato ventenne, annunciando e denunciando la «strage delle illusioni» (è il titolo di un bel volume curato da Mario Andrea Rigoni per Adelphi nel 1992), compiuta in nome della ragione e del progresso, mostra di rimpiangere gli "errori" di una civiltà istintiva, appassionata e capace di entusiasmi profondi. Un Leopardi irrazionalista e vitalista? Quale sarebbe stato, allora, il "suo" 48?

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