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Mussolini, il vaso di ferro in mezzo a vasi di coccio

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Lapresa del potere e la successiva ascesa alla dittatura di Benito Mussolini sono un rebus storico. Quella piccola frangia militarista in camicia nera seppe, nell'arco di pochissimo tempo, assicurarsi i gangli vitali di una Paese giovane, ma che sembrava volersi avviare sulla strada della democrazia, seppur stemperata dalla monarchia. E invece no. Facendo leva sui sentimenti di scontentezza degli ex combattenti della prima Guerra Mondiale, dimostrando abilità camaleontica e minacciando chi tentava di sbarrargli la strada, Mussolini con il suo manipolo si fece largo in quella fragile democrazia come una lama arroventata nel burro. Come fu possibile? Con la penna abile dello storico risponde, almeno in parte, a questa domanda Raffaello Uboldi con il saggio «La presa del potere di Benito Mussolini», Le Scie Mondadori, 19 euro, 302 pagine. L'avvento del Fascismo fu una tragedia che Uboldi racconta descrivendo con puntualità il come, il dove e il chi, andando avanti atto per atto. Se non si parlasse della storia recente d'Italia questo saggio potrebbe sembrare un thriller corale, un film di Brian Singer, nel quale uno stuolo di personaggi, quasi tutti cattivi o stupidi, alcuni sia cattivi che stupidi, si muovono pensando ad un'unica cosa: il tornaconto personale. Uboldi, con coraggio narrativo, comprime tutta la tragedia in quell'ottobre del 1922 nel quale l'Italia prese un treno dal quale sarebbe scesa poi solo con la seconda Guerra Mondiale: il libro è diviso in trentuno giorni, ma dentro ci stanno tutte le contraddizioni dell'Italia del primo Dopoguerra. Anzi dentro ci sta anche quella Grande Guerra che macellò due o tre generazioni di bravi figli di mamma e che alla fine formò un esercito di sciagurati e violenti. Tra le trincee fangose, in mezzo a fame e morte, covarono il loro odio buona parte di coloro che poi si ritrovarono a marciare nelle vie di Roma. Tra gli attori di questa sgangherata vicenda, che l'autore descrive senza alcuna pietà, ci sono due... giganti: Mussolini e Vittorio Emanuele III. E tanto basta per definire la statura degli altri. Alla fine «Re Pippetto» ebbe paura di pararsi davanti a Mussolini. E fu il primo che non seppe misurare la forza del futuro duce degli Italiani. Nel conto vengono messi anche Giovanni Giolitti, Luigi Facta e Francesco Saverio Nitti, che, filosofi, pensatori, uomini di Stato, presero una fenomenale cantonata, anche loro, nel soppesare quel Benito Mussolini. Percorrendo la marcia giorno per giorno, tra considerazioni e digressioni, emerge chiaro che il raggruppamento capeggiato dal facinoroso giovanotto sarebbe stato destinato ad un clamoroso fallimento, se si fosse trovato di fronte politici privi di secondi fini. La partita del Dopoguerra si giocava con il passaggio da un paesello di agricoltori ad una nazione industriale di operai. Gente dura, che stava, letteralmente, costruendo la fortuna del Paese e non voleva più accontentarsi delle briciole. Gli operai sui loro giornali, con il passaparola, cullavano il mito della rivoluzione bolscevica. E facevano paura. Gli industriali, la borghesia, i burocrati dell'Italia sonnacchiosa e pigra portavano in palma di mano quelle camicie nere che randellavano chi usciva dai ranghi. Ma il mastino, una volta liberato, non si farà rimettere la museruola. Il cane nero come zampe aveva le azioni, calcolate, dei quadrumviri Balbo, Bianchi, De Vecchi e De Bono. Da una parte all'altra si muovono Diaz e D'Annunzio. Alla fine il drappello di ex combattenti, arrivati nella città dei papi alla spicciolata, con i treni e mezzi di fortuna, diverrà una forza che nessuno riuscirà a fermare. Una forza che prima di tutto farà i conti con tutti coloro che guardavano con diffidenza il fascismo, ma che pensarono di poterne ricavare qualche cosa. E che magari, dopo vent'anni di bagno, si reinventarono anche antifascisti.

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