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Addio a Tullio Pinelli, il letterato che scriveva i sogni di Fellini

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TullioPinelli era il decano di tutti coloro che, in Italia, scrivono per il cinema: gli sceneggiatori. Il primo che incontrai e, curiosamente, non a causa del cinema ma del teatro. C'era la guerra, era il buio '43. Io cominciavo un po' a scrivere (di teatro, appunto) in un mensile che non ebbe poi molta vita. Una sera di marzo ero al teatro Argentina dove si dava il dramma di un giovane piemontese, Tullio Pinelli, che da poco si era trasferito a Roma. Si intitolava Lotta con l'angelo e mi colpì immediatamente non solo per la sua vitalità teatrale (che, quello stesso anno, avrebbe meritato all'autore un premio dell'Accademia d'Italia), ma per una forte tensione spirituale. Poi il mio primo incontro. E per un film che doveva produrre proprio mio padre, piemontese come lui, e che, diretto da Mario Soldati, si sarebbe rifatto a un testo celebre del teatro in lingua piemontese, Le miserie d'monssù Travet, di Vittorio Bersezio, diventato al cinema Le miserie del signor Travet (1946). Pinelli doveva definitivamente imporsi nel cinema quando partecipò agli unici due film quasi neorealisti di Alberto Lattuada, Il bandito (1946) e Senza pietà (1948). Cui fece seguire, con una personalità ormai sempre più affermata, la sua lunga collaborazione con Pietro Germi, da In nome della legge (1949) addirittura ad Alfredo Alfredo (1972) e a quel suo film postumo, poi diretto da Mario Monicelli, che fu Amici miei (1975). Il suo peso, in quei testi, lo davano soprattutto le sue doti di narratore. La spiritualità, però, che aveva guidato fin dagli esordi il suo teatro, doveva arrivare ad imporsi, e allora in modo predominante, quando ebbe inizio quella collaborazione con Fellini che, avviata con Lo sceicco bianco (1952), doveva proseguire un film dopo l'altro proprio fino all'ultimo, La voce della luna (1990). Il binomio Fellini-Pinelli, anche più di quello con gli altri collaboratori, compreso Ennio Flaiano, segnò in modo determinante il cinema e la carriera del primo. Non solo, appunto, per quell'incontro con la spiritualità che doveva approdare alle sue vette più alte nella Strada (1954), ma nella rielaborazione in cifre intellettuali di quelle fantasie fra l'irreale e il surreale di Fellini. Lui il vulcano che suscitava la lava infuocata della sua immaginazione, Pinelli quello che, dimesso, in disparte, ma sempre presente, dava loro un ordine, un metodo. Spiritualità indirizzata anche lungo vie impervie, in seguito al suo incontro con Liliana Cavani, in quelle cifre, definite allora dei «cattolici del dissenso» con due film specialissimi: Francesco d'Assisi (1966) e Galileo (1968). Si avvicinò ad un autore che, pur avendo inizialmente partecipato al fenomeno della commedia all'italiana, aveva finito per seguire presto vie più raccolte e interiori: Mario Monicelli. Una collaborazione fervidissima che, dopo i tre Amici miei (il terzo diretto però da Nanni Loy), doveva vedere Pinelli e Monicelli felicemente insieme in Viaggio con Anita (1979), da un soggetto di Fellini, nel Marchese del Grillo (1981) e, soprattutto, in Speriamo che sia femmina (1986). Vorrei ancora ricordare, dopo la lunga attività radiofonica in favore del teatro, quella altrettanto lunga ed intensa cui Pinelli si dedicò in televisione, con sceneggiati che hanno fatto epoca: da Eleonora (1972), con Giulietta Masina a Madre Teresa di Calcutta (1987), di mio fratello Brunello. Gli avevamo attribuito un David di Donatello per celebrare la carriera e i premiati, come si usa, furono ricevuti al Quirinale. Il presidente, che era Scalfaro, gli consegnò un grande astuccio verde comunicandogli che, per l'occasione, aveva tenuto a insignirlo, «sul campo», della nostra onorificenza più ambita, la Gran Croce al Merito della Repubblica Italiana. Tutto il cinema presente, gli amici, i colleghi, si alzarono subito in piedi per applaudire. Un saluto, grato e ammirato a un grande del nostro Paese.

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