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Julius Evola, la vendetta dell'alchimista

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In molti suoi saggi, l'eredità della cultura pagana, quello "stile" e addirittura quel "lessico" sono proposti come valori a tutti coloro che, tra le rovine del mondo moderno, intendano comportarsi da uomini e fondare un nuovo ordine etico e politico: ma c'è chi si è consacrato alla più intransigente milizia cristiana dopo essere stato "folgorato" dalle sue pagine dedicate al Medioevo del Sacro Romano Impero, della Cavalleria, del Ghibellinismo. L'hanno definito "Barone nero", "maestro occulto" della Destra reazionaria, addirittura, negli anni dell'immediato dopoguerra e poi in quelli "di piombo", ispiratore della più radicale contestazione antisistema, in poche parole un inquietante, pericoloso "fascista": e tuttavia, negli anni del Regime, l'ufficialità "littoria" lo guardava con sospetto e negli ambienti del vecchio MSI la sua lezione, ha trovato forse più aspri detrattori che convinti seguaci. C'è chi ha cominciato a sventolare la bandiera dell'Europa, superando la miopia del chiuso patriottismo nazionalista, grazie a lui: eppure i suoi itinerari "orientalistici" erano tutt'altro che "eurocentrici". Aureolato di mistero, aristocratico, lontano dal chiasso della quotidianità, dal cicaleccio della politica, dai compromessi dell'industria culturale, pareva vivere in una sorte di "turris eburnea", in quella casa romana dove tanti giovani andavano a trovarlo, ma sui "beat", sugli "hippies", sulla "contestazione giovanile", sui "tic" e i "tabù" dell'Occidente seppe fare riflessioni acute, lungimiranti ed ancor oggi attualissime. Molti lo hanno definito "cattivo maestro", ma molti altri pensano che abbia avuto, piuttosto, dei "cattivi allievi", come ha più volte sottolineato Gianfranco de Turris, che da una vita è impegnato nella definizione del composito profilo intellettuale di Evola e che per le Edizioni Mediterranee ha curato la riproposta, con attenti apparati critici, della sua opera. Certo, Julius Evola, nato a Roma il 19 maggio 1898 da una famiglia siciliana di nobili origini, benestante e cattolica, e qui morto l'11 giugno 1974, è stato ed è segno di contraddizione. Insomma, non tutti i nodi sono stati sciolti e un vago alone sulfureo gli sta ancora sospeso sulla testa. "Et per cause" vista la sua problematicità di pensatore anticonformista, antiaccademico, poliedrico, eterodosso, difficilmente classificabile. E tuttavia, se già negli tra le due guerre lo "scandaloso" Evola riceveva tributi di stima da Adriano Tilgher, Benedetto Croce e Gottfried Benn e negli anni Ottanta studiosi come Renzo De Felice, Massimo Cacciari, Giorgio Galli, Emilio Servadio mettevano in risalto il suo ruolo e il suo rango nell'"interventismo culturale" del Novecento, oggi il dibattito si arricchisce di nuove voci. Mentre cadono vecchi pregiudizi. Ma anche la cultura più rigorosamente accademica e "scientifica" mostra interesse per le sue opere? E tra non molto potremo trovare il suo nome tra le pagine di qualche manuale di Storia delle dottrine politiche in uso nelle Università? Che nei confronti del "Barone nero" stiano maturando attenzioni, lo attesta Gian Franco Lami, docente di Filosofia Politica all'Università di Roma "La Sapienza", in un'intervista rilasciata a Marco Iacona, in cui, con dovizia di buoni argomenti, si evidenziano, insieme alle antiche ragioni della "diffidenza", quelle attuali della "apertura", per quanto non facile, dato che Evola non si è limitato a teorizzare nel chiuso della sua biblioteca, ma ha scelto le più audaci e scomode "contaminazioni" con la storia e con la politica ("Il Maestro della Tradizione. Dialoghi su Julius Evola", prefazione di Gianfranco de Turris, Controcorrente, pp.430, euro 30). E questo è un punto che riteniamo importante, anzi cruciale: il confronto, al limite lo scontro, con una variegata esperienza intellettuale che non si è mai negata alla testimonianza. L'esoterista Evola, lo studioso del Graal, il cercatore lungo i più ardui e complessi itinerari sapienziali, ha anche vissuto "pericolosamente": giorni ed opere, per citare un celebre titolo di Georges Dumezil, corrispondono alle "venture" e alle "sventure" di un "guerriero". Ed è con questi contrassegni - contemplazione e azione - che, evocato da quaranta lettori illustri (Accame, Bonvecchio, Zecchi, Buttafuoco, Cardini, Veneziani, Risé, de Benoist, Mola, Sgalambro, Freschi, Germinario…), emerge da queste pagine di testimonianza e ricognizione, chiamandoci al dibattito.

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