«Il degrado urbano genera violenza»
Una stazione ferroviaria che di notte diventa dormitorio per diseredati. Luoghi, o «non luoghi», teatro di violenze, di incontri brutali, di primitivi e rapaci rapporti fra esseri umani. Non è un caso. Non è fanta-sociologia. Esiste una relazione fra l'ambiente e il comportamento, come spiega l'urbanista Paolo Portoghesi. E c'è una scienza che la studia. Qual è e che cosa ci insegna, professore? «Si chiama Psicologia Architettonica e c'è una cattedra di questa disciplina anche alla Sapienza, sebbene spesso gli architetti la ignorino, basandosi esclusivamente sulle loro intuizioni. Al contrario, è importante sapere quello che i cittadini desiderano e studiare gli aspetti patologici dell'architettura». Un esempio? «La sindrome da condominio, legata all'eccesso di controllo sociale del ballatoio. Ora si parla di un programma per nuove case popolari. Mi auguro che si realizzi tenendo conto di tali esigenze, come fece Fanfani alla fine degli Anni '50 con il Piano di occupazione operaia». Quale fu il segreto del successo del Piano? «Si crearono quartieri che avevano una loro spiccata personalità. Per farlo si puntò sulla qualità e vennero coinvolti i migliori architetti italiani. Oggi, poi, ci sono strumenti molto efficaci. Come, appunto, la psicologia architettonica, che consente una migliore abitabilità degli edifici». E i criteri per raggiungere questi risultati? «Sono numerosi, da quelli affettivi a quelli cognitivi. La leggibilità degli stabili e dei quartieri, l'idea che uno si fa del luogo dove abita, la distanza dal posto di lavoro. Tutti elementi da cui nasce la soddisfazione residenziale». Si parla tanto di integrazione e aggregazione. Ma molti quartieri dell'hinterland sembrano spingere verso la disgregazione, la ghettizzazione e l'emarginazione. Dov'è l'errore? «L'integrazione si svolge nel tempo. All'inizio un extracomunitario ha bisogno di ritrovarsi fra i suoi simili, i suoi correligionari e quindi trovare luoghi in cui questo scambio può avvenire. Solo più tardi il desiderio di isolamento diventa desiderio d'integrazione». E le nostre periferie non fanno questo effetto... «Nella periferia romana esistono una serie di "pezzi" disegnati da architetti di qualità. Però sono frammenti non collegati al tessuto urbano. Tentativi falliti, come Corviale, Torbellamonaca o il Laurentino 38. Le strutture "fanfaniane" dell'Ina Casa al Tuscolano e al Tiburtino, invece, si distinguono dal resto della città ma mantengono un legame con la metropoli, che negli Anni '80 si è perduto». Che cosa ha fatto la politica per la qualità urbana? «È un problema del tutto estraneo al dibattito politico, che invece dovrebbe farsene carico. Tutti, infatti, sentono il bisogno di una città diversa». Che ne pensa di alcuni nuovi pseudo-quartieri, come Parco Leonardo o Ponte di Nona? «L'ultimo che ha citato è atroce, agghiacciante, non ha nulla di umano. Una serie indefinibile di scatole scure. Sembra fatto apposta per generare nei suoi abitanti una condizione da incubo». E Guidonia? «La qualità architettonica originaria di questa cittadina costruita negli Anni '30 è stata distorta da una crescita assurda. Sta diventando il terzo centro urbano del Lazio, ma è ormai una "non città"». Che rapporto c'è fra criminalità e degrado architettonico? «Le zone dove il rifiuto delle regole sociali è più evidente mancano di qualsiasi rispetto per la logica dell'habitat tradizionale. Si presentano come semplici soluzioni tecniche-quantitative del problema residenziale. Sono indirettamente vere e proprie istigazioni alla violenza e lì si vive uno spettacolo che è la negazione della società. Non c'è niente che richiami lo stare insieme armonicamente. Si tratta, insomma, di quartieri-dormitorio, totalmente estranei alla città e nei quali gli abitanti si sentono esiliati». Che cosa manca? «La qualità spaziale (luoghi troppo angusti o troppo ampi), la scala umana e il carattere educativo». L'urbanistica può educare alla convivenza sociale? «Certo. Prendiamo il caso di Siena. I senesi sono divisi in sestieri, che sono società nella società e li spingono a vivere aggregandosi e a dare addirittura al proprio vicinato un valore competitvo rispetto agli altri». Che fare per migliorare la situazione? «Dare importanza alle residenze rispetto ad altre opere. Poi tornare alla qualità. Infine, il policentrismo, cioè la disseminazione dei servizi nelle metropoli, in modo da rendere ogni quartiere ricco di servizi e autonomo. L'ultimo successo, in tal senso, è stato l'Eur, dietro al quale c'è un'idea e una tradizione. Nato per ospitare l'esposizione universale, ha trovato una sua logica come centro direzionale. Ma, come dicevamo, la politica si è occupata e si occupa poco di problemi architettonici e, dal dopoguerra, l'architettura è stata demonizzata. Forse per reazione all'interesse e ai buoni risultati che, in questo campo, si ebbero durante il Ventennio».