Cerca
Cerca
Edicola digitale
+

«Israele, Paese di scampati dove tutti odiano la violenza»

default_image

  • a
  • a
  • a

Ad Alberto Sed è dedicato il libro scritto da Roberto Riccardi: «Sono stato un numero - Alberto Sed racconta», edito da Giuntina, una biografia che descrive la giovinezza travagliata dalle leggi razziali, dalla guerra. E il peggio che venne dopo. Sed, che oggi ha tre figlie, sette nipoti e tre pronipoti, parla con fermezza e serenità del conflitto tra israeliani e palestinesi. «Non abbiamo voluto noi quella guerra - afferma - Israele è stata creata da persone scampate dalle retate, dai campi di concentramento. Pensate che questa sia gente che vuole la guerra?» Signor Alberto Sed, qual è stato l'ultimo periodo sereno della sua infanzia? «Quando ero in collegio, al Pitigliani, a Roma, e mi chiamavano per giocare a calcio. Ero fortissimo. Facevo la palla con la carta, a mia mamma domandavo una calza vecchia per metterla insieme. Ero imbattibile, avevo nove o dieci anni. Ero un centravanti, mi chiamavano il piccolo Amadei. Poco tempo fa in una manifestazione, ho incontrato Totti e gli ho detto che ho segnato dei gol che se li sognano lui e anche Pelè e Maradona. Ad un certo punto... non mi chiamò più nessuno. Non mi volevano, ma c'erano tanti tornei, io dicevo che non ero ebreo e mi facevano giocare. Per un po'. Poi scoprivano tutto e non mi facevano giocare più». Cosa ha pensato la prima volta che ha sentito il nome Auschwitz? «Non mi hanno mandato subito ad Auschwitz, prima a Fossoli, l'anticamera dell'inferno. Poi sono arrivato a Birkenau e, in seguito, ci hanno detto che faceva parte di Auschwitz. Non sapevo che posto fosse, c'era solo campagna e filo spinato. Non avevo mai sentito quel nome, eppure a scuola avevo studiato geografia: l'Europa, la Polonia. Dopo qualche giorno ho scoperto che era un campo di sterminio. Mi avevano separato da mia madre e dalle mie sorelle, non sapevo dove fossero. Conobbi dei francesi, io avevo studiato il francese, che indicarono il fumo che usciva dalle ciminiere. Mi dissero: con tua madre e con le tue sorelle ci hanno riscaldato le baracche. Pensavo mi prendessero in giro, invece era tutto vero». Quanti parenti ha perso nel campo di sterminio? «Mia madre, Enrica e mia sorella Emma, giudicate inabili al lavoro, furono subito uccise. Un'altra sorella, Angelica, è stata sbranata dai cani delle SS, per divertimento. Mia sorella maggiore Fatina, molto bella, bionda, con gli occhi azzurri, fu sottoposta agli esperimenti da Mengele. Ha vissuto fino al '96». Cosa le ha dato la forza di vivere? «E che ne so? Venivo da un collegio dove facevo tanto sport, ginnastica, tuffi, nuoto... ero robusto. Poi ho evitato un po' di botte, non sempre, solo un po'. Sono stato in miniera, ho fatto anche la boxe per un pezzo di pane». Cosa pensa della guerra tra israeliani e palestinesi? «È terribile che le persone muoiano, soprattutto dei bambini, ma... Da piccolo andavo al collegio Pitigliani. C'erano tanti allievi, una cinquantina. Dopo la guerra vedevo che non riapriva e pensai che fossero stati presi. Invece no. I bambini furono nascosti da un gruppo di suore nel locale della caldaia, con le bocche sigillate da cerotti, durante un'ispezione delle camice nere. Poi ad uno ad uno furono messi al sicuro nei conventi. Quelli che avevano perso i genitori poi vennero portati in Israele. Ecco, prima che arrivassero gli scampati in quei territori c'erano ebrei e palestinesi, pregavano tutto il giorno e un paio d'ore lavoravano. Poi arrivammo noi, gente sopravvissuta ai lager. Lavoravamo dieci ore al giorno e forse una o due pregavamo. Queste sono le persone che hanno popolato Israele. Non è gente che vuole la guerra. No, gli israeliani non vogliono la violenza, non vogliono uccidere. E mi fa male dentro quando vedo una trasmissione come quella di Santoro... lui mette odio». (A destra Alberto Sed in una foto scattata dopo la liberazione. Pesava 35 chili)

Dai blog