«La regina dei castelli di carta» vince il Male ma non convince
È lo stesso vago senso di pienezza e quell'impressione di mangiare la stessa minestra che ci assale al cospetto delle ottocento e rotte pagine de «La regina dei castelli di carta» (Ed. Marsilio) terzo e ultimo tomo della celebrata trilogia «Millennium» di Stieg Larsson. I primi due volumi: «Uomini che odiano le donne» e «La ragazza che giocava con il fuoco» sono stati successi planetari e hanno glorificato lo scrittore svedese, prematuramente scomparso nel 2004, proprio subito dopo aver dato alle stampe «La regina dei castelli di carta». I fedelissimi di Larsson già alle prese con il tomone (in molti lo hanno pure finito!) si sono imbarcati nell'impresa con le migliori intenzioni, presi dallo stesso furore. L'impatto li ha, però, spiazzati. Un lungo, lunghissimo estenuante prologo in cui si riannodono i fili della vicenda raccontata nel secondo libro. Lentissimamente sono scivolati nel nocciolo della questione. In soldoni: the plot è incentrato su come certi funzionari statali legati ai Servizi Segreti (della serie «C'è del marcio in Svezia») hanno cospirato contro Lisbeth Salander, l'eroina tascabile e ferocissima della trilogia, facendola addirittura rinchiudere in un manicomio, per salvare il di lei padre Zalachenko ex spia russa dal torbido passato. Sullo sfondo pericolosi figuri che s'aggirano, una serie di omicidi e il super-giornalista il maledettissimo Michael Kalle Blomkvist, amico di Lisbeth e soprattutto bravissimo investigatore privato. Non vogliamo qui anticipare i colpi di scena che contribuiranno a sbrogliare la matassa del complicato intreccio, naturalmente! Sappiate però che i temerari sopravvissuti fino a pagina 850 (e passa) la consapevolezza d'aver fatto indigestione un po' ce l'hanno. E non tanto di tramezzini e tazze di caffè nero (se ne continua a consumare in quantità industriali anche in questo libro) ma dei larssonismi. A cominciare da una pletora di personaggi (maggiori, minori, di sfondo e tutti dai nomi impronunciabili) e dei quali lo scrittore non ci risparmia nulla da come si vestono a quanti peli hanno nel naso. Poi ci sono gli spostamenti (in treno perlopiù) su e giù per la Svezia verso luoghi anch'essi impronunciabili. Dicevamo della pignoleria (che rasenta il ridicolo come la spiegazione da referto medico della posizione del proiettile conficcato nella testa di Lisbeth) con la quale i vari eventi vengono descritti, sezionati, pesati, centellinati. Con una tecnica che potremmo definire aumentativa, Larsson continua sempre ad introdurre nuovi elementi, nuovi personaggi, nuovi dettagli... E la matassa s'ingrossa e il lettore, spesso e volentieri, perde la bussola. E il naufragar non è dolce in questo mare. Tutto ciò manda in brodo di giuggiole i detrattori dei libri di Larsson (il commento peggiore: «La trilogia è una brodaglia»). Tra i larssonismi che ci piace sottolineare, di contro, c'è che nella lotta tra il Bene e il Male, il primo trionfa sul secondo (ci mancherebbe!) e che almeno in quel paese del Nord Europa, patria del Welfare e della Rivoluzione Sessuale, ci sono dei giornalisti che sanno fare il loro lavoro alla perenne ricerca della Verità. L'improvvisa scomparsa di Stieg Larsson, che non ha potuto godere del fragoroso successo scatenato dai suoi libri, ci fa pensare alla sua opera come qualcosa di compiuto (a meno che non spuntino, a sorpresa, altri manoscritti). Ci lascia due figure straordinarie che a diritto entrano nella storia della letteratura gialla: il giornalista Blomkvist, appunto, un senzamacchia scaltro e intelligente e la giovane Lisbeth sottile come un giunco e forte come una roccia. Isolata (affetta da una leggera forma di autismo), taciturna, spregiudicata, più volte bastonata e più volte risorta. Addirittura come la Kill Bill di Quentin Tarantino esce pure fuori da una sepoltura come una resuscitata: impolverata, ferita e pronta alla vendetta. Ah quasi, quasi ce ne dimenticavamo: è lei la Regina del titolo!