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Ma "Faber" è un poeta. E senza virgolette

Fabrizio De Andrè

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Aveva gettato la maschera negli ultimi giorni, quando al capezzale è ammessa solo la verità. Era andato a trovarlo in ospedale Paolo Villaggio, l'amico di una vita, quello che lo aveva ribattezzato "Faber" per identificarlo con quei pastelli che l'altro amava tanto, anche se gli bastavano una matita e un plettro per colorare il mondo. De Andrè sorrise di quel tanto che la malattia ancora gli consentiva, poi i due si sciolsero in un abbraccio di furia, lacrime, tardiva esaltazione. Fabrizio ghermì Paolo per le spalle, quasi volesse abbandonare quel letto che sapeva già di condanna, fuggire via, riproporsi quelle zingarate che avevano inaugurato quand'erano mocciosi impuniti. «Fai che il mondo mi ricordi per quello che sono - soffiò il malato all'orecchio dell'attore - perché io sono un poeta». E lo era. Per tutta la carriera si era schermito, rispondendo con ligure understatement al classico quesito su cosa si dovesse incidere sulla sua targa d'artista: «Benedetto Croce diceva che fino a diciotto anni tutti scrivono poesie e che, da quest'età in poi, ci sono due categorie di persone che continuano a scrivere: i poeti e i cretini. Allora, io mi sono rifugiato prudentemente nella canzone che, in quanto forma d'arte mista, mi consente scappatoie non indifferenti, là dove manca l'esuberanza creativa». Non che mentisse, ma semplicemente lo inorgogliva che un «cantautore» (dunque un irregolare, come gli antieroi che affollavano i suoi testi) finisse celebrato, e tanto presto, nelle antologie scolastiche. Nel presepe profano dei diseredati, delle puttane, dei senzaterra, degli ultimi, c'era dunque anche uno con la chitarra, capace di incendiare le anime con la forza bruciante della poesia. Quella senza virgolette o distinguo di sorta. Ieri, su questo giornale, l'ottimo Davide Rondoni ha speso parole per sostenere il contrario, usando esempi come Vasco Rossi o Al Bano per ricostringere post-mortem De Andrè nel più stretto cerchio del rock e del pop, strumenti di consumo emotivo «in un'epoca sentimentalista, dove si tende ad aggettivare con "poetico" tutto». Una sorta di contrattacco accademista, parrebbe quello di Rondoni, dove retoricamente si esalta il "Vate" di Zocca «perché in lui viene sottoposta a maggiori tensioni inventive la lingua italiana» mentre «la maggior parte delle suggestioni "poetiche" che si trovano in De Andrè sono reperibili nei narratori importanti e nei poeti degli anni '50 e '60». Dimentica, Rondoni, che il linguaggio del rock deve la vertiginosa efficacia al suo collegare pancia e testa, con vocazione gergale e bassa. La rockstar chiama l'identificazione della massa, il poeta mangia pane e solitudine mentre cerca una segreta risonanza che vibri nell'interstizio tra corpo e spirito. De Andrè fu cantautore quasi per caso: aveva una paura matta del palco e della sua voce, e ci salì solo per debiti, molti anni dopo "Marinella" o "La guerra di Piero". E per togliere l'alloro dalla testa di Faber non basta mettere in campo una provocazione post-parnassiana, discettare sul metro alessandrino o sulle rime baciate, rivendicare una presunta superiorità della parola declamata su quella cantata. "Musica" - Rondoni lo sa - è termine che in origine racchiudeva tutta la bellezza e la perfezione che le Muse potevano offrire. Tutte, e tutte insieme. Stupisce, semmai, che ancora se ne dubiti: certe puntualizzazioni appartenevano a una casta versificante che aveva già perso il proprio primato cinquant'anni fa, quando nel nostro astratto paradiso post-montaliano irruppero gli iconoclasti del Gruppo '63, figurarsi quando scesero in campo i cantautori. Certo che Faber è un poeta: come lo è sempre stato Leonard Cohen, come lo furono Brassens o Brel. Come lo è sempre stato Dylan, quello che Fernanda Pivano chiamava "il De Andrè americano", e ci saranno motivi se Bob ha vinto un Pulitzer e meriterebbe il Nobel più di tanti premiati degli ultimi anni, compreso l'impalpabile LeClezio. La nostra non è un'epoca "sentimentalista", ma un'epoca che ha fame di sentimenti. Forse perché, come sostiene un altro poeta, e immenso come T.S.Eliot, «il genere umano non può tollerare troppa realtà». Abbiamo bisogno di affondare le mani nella melma e vedere se qualcuno ci ha infilato un seme che poi diventerà il primo germoglio di un'epifania del cuore, di uno spleen, di una coscienza più vasta. Dai diamanti, si sa, non nasce niente. E nel secondo dopoguerra italiano è difficile individuare un poeta (senza virgolette) che abbia scavato così profondamente nella coscienza di una generazione, e di quelle che sono venute dopo. Trovando una strada lirica ("in direzione ostinata e contraria", direbbe lui) per scoprirsi vivo nella morta società dei benpensanti. Sappiamo separare i grandi cantautori (Guccini, De Gregori, Tenco, Paoli) dai poeti. Ci hanno insegnato a distinguere la forma metrica del testo di una canzone da Leopardi o Ungaretti. De Andrè fu poeta, e come lui in Italia solo Pasolini. Due intellettuali scomodi a tanti, che cantavano l'innominabile e l'osceno, l'intimo e il civile, e si offrivano non richiesti per cercare la carne viva di quell'Italia congelata in troppi clichè. Divisi solo sulla valutazione di Valle Giulia, in quella primavera del '68. PierPaolo con i poliziotti, l'altro con gli studenti. Non mette conto di ricordare l'opus lirico di De Andrè. Per dire ciò che fu, basta un verso del suo abbacinante ultimo disco: "Che grande inganno sei, anima mia". Un epitaffio lontano da Spoon River. O forse un presagio universale.

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