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Giorgio Gaber, l'artista senza tempo che sapeva prevedere il futuro

Giorgio Gaber

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{{IMG_SX}}Un interesse motivato e dettato dal contenuto del brano rimasto nel cassetto, «Io quella volta avevo 25 anni», ovvero il monologo di un uomo perennemente venticinquenne che rievoca avvenimenti immaginari vissuti dal 1940 al 2000. Un brano scritto con Sandro Luporini che l'artista milanese non fece in tempo a portare in teatro. A portarlo invece in scena per la prima volta ci ha pensato Claudio Bisio, il 12 dicembre al Piccolo Teatro Strehler e il 13 dicembre al Teatro Dell'Archivolto di Genova. Il pezzo è stato interpretato da Bisio, accompagnato al pianoforte dal maestro Carlo Boccadoro, con la regia di Giorgio Gallione. Un inedito di Gaber è sempre una notizia, anche se stavolta, al di là dell'ironia sempre presente nei suoi lavori, sembra prevalere quel mini-filone malinconico che attiene al reinventare la propria coscienza. Gaber sembra suggerire di togliere la maschera che si indossa quando si è soli con se stessi e vedendo il proprio volto segreto a volte si rimane sorpresi. Proprio nel momento in cui l'esercito dei gaberiani si estende, in modo un po' subdolo, gli intellettuali si stringono intorno alle sue verità scomode. Mario Capanna, Gad Lerner, persino il filosofo Salvatore Veca, esaltano le proprie passioni trasversali, anche se nel nuovo brano viene sbertucciato il mito del partigiano. Gaber sosteneva che la ricerca della perfezione spesso distrae. È molto più utile avere il coraggio di sperimentare liberamente soluzioni che non necessariamente daranno buoni risultati. Anche in questo improvviso inedito - che sembra tanto accumunarlo al destino di altri artisti della sua generazione prematuramente scomparsi - forse non così memorabile, Gaber si pone come il cantore lucido e stralunato al tempo stesso dell'immaginario collettivo della sinistra. Ancora una volta, compatibilmente, senza riuscire a risolvere la questione fra la positività del suo ruolo di autore-cantante-attore e la negatività di quanto scrive, canta e afferma. Contraddizioni che comunque non impedirono lo straordinario successo dei suoi spettacoli. Mentre si moltiplicano le iniziative che lo riguardano - alcune colte e di taglio alto, altre molto commerciali che certamente lo avrebbero fatto rabbrividire - ci si chiede quale sia il vero Gaber: quello degli anni Sessanta dei grandi successi discografici («Non arrossire», «Porta Romana», «Trani a go-gò», «La ballata del Cerutti» o quello teatral-social-politico a partire dal 1970. Intellettuali e impegnati sono tutti per il secondo periodo, i «non so», come direbbe lui, per il primo. Una valutazione troppo rigida forse, all'interno della quale si ci dimentica spesso che Gaber nei «superficiali» anni Sessanta, riuscì a condurre trasmissioni televisive quali «Le nostre serate», «Il canzoniere minimo», «Diamoci del tu», tutt'altro che frivole e soprattutto in un regime televisivo monocolore Dc non proprio confortante. Coniugare la capacità di esser scomodo ma non proprio subalterno fu la sua grande qualità in quegli anni, mantenendo, fino a che fu possibile, buoni rapporti con il mondo della musica leggera, quello discografico in particolare, che alla fine però divenne asfissiante. In realtà un artista del genere, per rinnovarsi,aveva bisogno di quel pizzico di narcisismo, quasi di misantropia, indispensabili per il nuovo corso. Ben vengano convegni, inediti e persino commemorazioni nei confronti di un artista del genere, ma che almeno non si sia troppo ossequiosi, soprattutto da parte di fans dell'ultima ora. Enzo Jannacci, forse il collega che lo ha conosciuto meglio, ha detto recentemente che il loro sodalizio, i Due Corsari, si sciolse perché Gaber continuava a chiamarlo il suo collaboratore, quasi la spalla. Infine una proposta. Perché non rivalutare il Giorgio Gaber essenziale chitarrista ritmico di rock and roll? Fu proprio lui a fondare i Rocky Mountains, la prima formazione che già nel 1957 coniugava country & western e rock and roll. Quelli si che sarebbero inediti esplosivi.

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