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Teatro dell'Opera da record

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Nel 2009 dirigerà le produzioni di Zeffirelli («Pagliacci» e «Traviata») ma anche un «Pelléas et Melisande» di Debussy in un allestimento nuovo di zecca. «Sono venuto per la prima volta a Roma come direttore nel 1974 - racconta Gelmetti - con un'opera di Guaccero. Ma sono nato e vissuto a Roma. Ricordo con emozione, ero piccolo, le produzioni di Visconti con Giulini. Dieci anni fa ho assunto il compito di rimettere in piedi la parte musicale del Teatro. Oggi le masse sono tra le migliori in Europa».   Ha qualche rimpianto? «Le produzioni saltate a causa dei tagli. Come il progetto dei Mozart di ambientazione romana nei luoghi storici di Roma - il "Lucio Silla", l'"Ascanio in Alba" o "La clemenza di Tito". Collocati nei Mercati Traianei o vicino all'arco di Tito avrebbero avuto una ripercussione mondiale. Così come rimpiango i concerti sinfonici annullati. Ho dovuto accettare la volontà del sovrintendente dettata da problemi economici. Volevo portare anche l'Opera al Teatro Tenda. Con David Zard. E poi il progetto barocco, con la capitale come palcoscenico».   E le maggiori soddisfazioni? «Tante. Innanzitutto il rendimento dell'orchestra, poi la crescita del pubblico ed una programmazione molto ampia con la linea Rossini-Mozart-Puccini, la linea francese con Faust o "Le Jongleur de Notre Dame", il Novecento italiano con Mascagni e Respighi. Infine la linea Verdi e il recupero di Wagner e Strauss».   Che pensa dei tagli? «Ho scritto al ministro Bondi, dicendo che più che di tagli si dovrebbe parlare di ottimizzazione delle risorse. Avevo anche proposto di fare una stagione lirica di salute pubblica nazionale: ogni teatro dovrebbe realizzare un'unica produzione annua che poi dovrebbe girare negli altri teatri con scambi ben coordinati. Tagliare e basta è un'operazione insufficiente e pericolosa. I teatri devono continuare a vivere. Mi addolora non aver ricevuto una risposta».   L'Opera vive un periodo d'oro. Entusiasmante la presenza di Muti. «Quando l'ho annunciato, nessuno ci credeva. Ci conosciamo da quarant'anni. Dieci anni fa la sua presenza a Roma non era pensabile, Roma era una "Rometta". La mia speranza era che lui venisse a prendere il mio posto. Non dispero ancora. Sento l'Opera come il mio teatro, il teatro della mia città».   Paventa la crisi della lirica? «No. Ma dobbiamo fare lo sforzo di proporre il teatro in maniera diversa, non solo a Piazza del Popolo (dove abbiamo realizzato "Don Giovanni" e "Il Flauto magico"). Forse ci sono spettacoli ancora troppo cari: la gente non può spendere troppo. Mi piacerebbero prezzi più popolari. Ma non dipende da me. E poi chi ci governa dovrebbe capire quanto la lirica è importante per il nostro Paese. Per l'Italia nel mondo si parla di Ferrari, di moda, di cinema. Ma è la lirica uno dei nostri "marchi" più sentiti all'estero».   Per dire arrivederci al pubblico capitolino ha scelto il Barbiere. «Un'opera molto legata a me, non solo musicalmente. E la dirigo in un teatro che lascio meraviglioso: Muti ne è stato entusiasta. L'Opera è oggi una Ferrari. Non si può mettere in discussione».

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