Saddam a brutto muso con Andreotti E non era ancora diventato il rais
Dal corpo dell'edificio si staccò l'alta figura di un uomo di media età, dal portamento ostentatamente eretto, con folti capelli e baffi neri che procedeva a capo scoperto, avvolto in una mantella di colore scuro ornata di fregi dorati. Era Saddam Hussein al-Tikriti, vice presidente del Consiglio del Comando della Rivoluzione irachena con funzioni di primo ministro, che veniva ad accogliere la delegazione italiana guidata dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti e dal ministro degli Esteri Arnaldo Forlani (...). Fu il nostro primo suggestivo incontro con colui che, nelle ventiquattro ore seguenti, sarebbe stato al centro dei colloqui italo-iracheni e della giustificata attenzione della delegazione italiana. Era visibile in ogni angolo dell'aeroporto la massiccia presenza di reparti militari addetti alla sicurezza mentre era in paziente attesa la lunga fila di dignitari precettati da Saddam per il benvenuto agli ospiti italiani. Prima di atterrare a Bagdad il bimotore dell'aeronautica militare si era fermato (...) a Tripoli, al Cairo e ad Amman, nell'ambito di un periplo arabo programmato da Andreotti in una fase di riacutizzazione della ricorrente crisi medio-orientale. Le motivazioni che stavano alla base della "tournée" araba erano molteplici. Qui mi limiterò all'aspetto politico della visita per meglio centrare l'obiettivo che mi sono proposto riesumando questi ricordi, quello di far rivivere, dopo quasi un trentennio, l'immagine del primo Saddam quale si era offerta alla delegazione italiana: un'immagine che lascia trasparire approssimativamente ma in forma già riconoscibile i tratti caratteriali, il programma politico e la base ideologica dell'uomo che avrebbe dominato per un quarto di secolo, imponendo la legge del sopruso e della violenza, la scena irachena e quella dell'intero Medio Oriente. Il processo di Camp David era stato avviato (...). La visita a Bagdad della delegazione italiana si proponeva di contrastare, nei limiti del possibile, in ciò interpretando una comune preoccupazione degli Stati membri della Comunità Europea, i temuti contraccolpi dirompenti dell'accordo Sadat-Begin sui delicati rapporti euro-arabi. Alcune recenti indicazioni sembravano avvalorare l'ipotesi che l'Iraq volesse riservarsi un proprio ruolo negli sviluppi della crisi, continuando a condannare la politica di Sadat ma evitando di allinearsi sulle posizioni degli oppositori a oltranza di una apertura negoziale verso Israele. La sosta a Bagdad avrebbe consentito al governo italiano di accertare, tra l'altro, se l'ipotesi rispondesse a realtà (...). Le ventiquattro ore trascorse dalla delegazione italiana a Bagdad furono dense di incontri. Tra essi, due colloqui con Saddam Hussein che, a richiesta di quest'ultimo, ebbero un accentuato carattere di riservatezza, con esplicita limitazione del numero dei partecipanti. Da parte italiana, ad affiancare il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri, fummo Valerio Brigante Colonna, ambasciatore d'Italia a Bagdad, e io stesso, in veste di consigliere diplomatico del presidente Andreotti. Venne organizzato anche un altro incontro di massimo livello, con Ahmed Hassan al-Bakr, presidente del Consiglio del Comando della Rivoluzione irachena e presidente della Repubblica. (...) Ma quando vedemmo Saddam Hussein non rimase alcun dubbio su chi rappresentasse l'Iraq di fronte ai rappresentanti ufficiali del governo italiano. Ricordo ancora che all'apertura del primo incontro, dopo i convenevoli d'uso, il colloquio rivestì, su iniziativa di Saddam, un'intonazione polemica. Saddam rimproverò alla delegazione italiana di aver pubblicamente sposato toto corde al Cairo la causa di Sadat mentre all'arrivo a Bagdad Andreotti aveva preferito nei contatti con la stampa spostare l'accento sull'importanza di una posizione unitaria del mondo arabo. Al che Andreotti rispose, con la consueta imperturbabilità, che le due dichiarazioni non erano contraddittorie ma complementari. L'Italia appoggiava senza riserve l'apertura di Sadat verso Israele, necessaria a nostro parere per avviare una soluzione del problema palestinese, passaggio obbligato per affrontare con successo la più ampia crisi medio-orientale. D'altra parte, eravamo convinti che senza una posizione unitaria dei Paesi arabi ogni tentativo in tal senso fosse votato all'insuccesso. Nel prosieguo dei colloqui, la posizione di Saddam si precisò ulteriormente. Premesso che egli non si proponeva di "ributtare a mare" gli israeliani, come era accusato di voler fare, sottolineò che era un errore negoziare con questi ultimi da una posizione di debolezza, anzi di arrendevolezza. Questo era il grande rimprovero che i governi arabi che avevano partecipato al vertice di Bagdad muovevano all'Egitto, accusato di essere pronto a sacrificare ai propri interessi nazionali gli interessi vitali del popolo palestinese. Saddam volle anche sottolineare che era un errore accusare gli arabi di prepararsi alla guerra con Israele, così denunciando le loro intenzioni aggressive mentre essi cercavano responsabilmente di essere pronti a ogni eventualità. Del resto, essere militarmente credibili avrebbe consentito agli arabi di premere efficacemente sugli israeliani per indurli ad accettare un'equa soluzione politica. Se questa fosse stata respinta da Israele, il "braccio militare arabo" avrebbe dovuto essere pronto a intervenire. Un altro punto di particolare interesse per noi fu la presentazione da parte di Saddam della posizione irachena nei confronti della Siria e fummo soprattutto colpiti dal linguaggio esplicito che egli scelse di usare. Nel suo pensiero, le incomprensioni tra i due Paesi appartenevano al passato, agli anni cioè in cui il Baath aveva già conquistato il potere a Damasco ma non ancora a Bagdad. Oramai, la leadership irachena nutriva la convinzione che Iraq e Siria formavano una "sola Patria" e, sulla base di questa premessa, intendeva promuovere con determinazione una politica concreta di riunificazione tra i due Paesi. Sull'Iran scelse deliberatamente di essere sommario ed evasivo ma cercò al contempo di essere rassicurante. In pratica disse due cose. Sulle origini della crisi iraniana non condivise l'interpretazione italiana che la attribuiva essenzialmente alle conseguenze sociali destabilizzanti di una troppo rapida modernizzazione e sostenne, a dire il vero un po' confusamente, la tesi dell'effetto congiunto della corruzione dei ceti dirigenti con conseguente reazione indignata dell'opinione pubblica e dell'azione destabilizzatrice perseguita dalle grandi potenze, e in particolare dagli Stati Uniti che non ammettevano che lo scià tentasse di sottrarsi alla loro tutela. La seconda riflessione di Saddam si soffermò sullo stato dei rapporti tra Bagdad e Teheran. Egli non nascose il timore che le difficoltà iraniane potessero avere pesanti ripercussioni in tutta l'area medio-orientale, e assicurò enfaticamente che la politica dell'Iraq nei confronti di tutti i Paesi vicini era animata da intenzioni pacifiche e spirito di collaborazione, e che augurava agli iraniani stabilità e salvaguardia della loro indipendenza. Come sappiamo, l'anno successivo Saddam invase il territorio iraniano e, con l'aiuto degli Stati Uniti, vi condusse senza successo una guerra devastante durata otto anni. (...)