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Manoel de Oliveira Al cinema un secolo di sogni Il regista portoghese compie domani cento anni ed è ancora sul set Film come poesia e storia. Da Mastroianni a Malkovich, i suoi attori

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E questo nonostante avesse creato soprattutto in solitudine, salutato dall'entusiasmo di quanti amavano davvero il cinema, ma a confronto, troppo spesso, di spettatori avari di consensi. Come accade di solito ai Poeti. Specie quando, a partire dai Settanta, avviò quella sua tanto celebrata «tetralogia degli amori frustrati» scaturita sempre da una personalissima rilettura di celebri romanzi «Il passato e il presente» (1972), «Benilde o la vergine madre» (1975), «Amore di perdizione» (1978), «Francisca» (1981). La donna in primo piano, la borghesia portoghese come sfondo quasi sempre, l'Ottocento come cornice e, ogni volta, un tentativo (splendidamente riuscito) di rinnovare la lingua del cinema rinunciando ai facili vezzi dello spettacolo e isolando le figure e le cose in immagini su cui si sostava a lungo, perché ogni loro interpretazione fosse possibile, anche al di là dei casi e delle fisionomie dei personaggi. Pur accettando, in talune circostanze, che fosse l'autore letterario a prevalere. Come nel caso della «Scarpetta di raso», dal «Soulier de satin» di Claudel, che de Oliveira, per rispettare l'integrità del testo, non esitò a proporre in un film della lunghezza insolita di ben sette ore. Un monumento alla grande letteratura ma, grazie alla fedeltà congeniale con cui lo si edificava, anche al grande cinema. Da qui, da questa tappa, il nuovo scintillio di una carriera pronta, ogni volta, ad affascinare e persino a stupire: per i fuochi d'artificio (meditati e intellettuali) delle sue fervide ricerche linguistiche e delle sue smaglianti invenzioni narrative. Nel sarcasmo surrealistico dei «Cannibali» (1988), ad esempio, un film che era un'opera lirica. Non perché si rifacesse ad un'opera preesistente, ma perché de Oliveira aveva chiesto a un musicista di scrivergli un libretto e di comporgli una musica operistica pronto a poi a ricavarne un film. Il libretto, che riecheggiava una storia gotica con una rivelazione «horror» alla fine e due suicidi, diventava cinema grazie alla sapienza stilistica con cui la regia lo vestiva di immagini preziose e lo svolgeva con ritmi scioltissimi non di rado carichi di suspense e di umorismo, vincendo anche la scommessa di far sempre cantare gli interpreti come su un palcoscenico, senza però che mai si sentisse il palcoscenico. Sorprendendo anche di più, per genialità di trovare sia in «No, o la folle gloria del comando» (1990), con cui arrivava a raccontarci l'intera storia del Portogallo attraverso le vicissitudini di un ufficiale nelle foreste del Mozambico, sia nella «Divina commedia» (1991), ambientato in un manicomio, con i ricoverati che si immaginavano di essere personaggi storici comportandosi come pensavano che loro si comportassero. In cifre con cui, nonostante il titolo, non c'erano riferimenti a Dante, ma in cui, ancora una volta, il gusto letterario si accompagnava a un'ironia non di rado anche sulfurea. Indirizzata a sferzare. Vi doveva contrastare quella rilettura di quasi tutto il Novecento che de Oliveira intese affidare addirittura a Marcello Mastroianni trasformato, in «Viaggio all'inizio del mondo» (1997) anche nell'abbigliamento, in un suo alter ego (come già aveva fatto Fellini) e chiamato a interpretare un anziano regista portoghese che, con un suo attore francese ma di origini lusitane, tornava sui luoghi che testimoniavano a entrambi le proprie radici. Dandoci il ritratto di un secolo soprattutto con le musiche, quasi insidiosamente piegate a suscitare allarmi, e riservando invece alle immagini la semplice, nobile funzione di trasmettere intuizioni sommesse, messaggi quieti, illuminazioni soprattutto interiori. Un'opera compiuta, e composta, di poesia. Seguita da altri film di raffinatezza eguale: «Inquietudine» (1998), tre storie destinate di cui solo alla fine si intuiva che il filo conduttore era l'ossessione della morte; «La lettera» (2000), rivisitazione nella Parigi di oggi della «Principessa di Clèves» di Marie-Madeleine de la Fayette, sintetizzata con didascalie in apparenza solo illustrative, e costruita come uno spettacolo in cui ogni personaggio si muoveva come su una scena, senza però far teatro. Gesti trattenuti, dialoghi detti in modo tanto più asciutto quanto più li scuoteva la passione, immagini nitide e terse, con le figure, le cornici, gli oggetti che concorrevano sempre a formare meditate composizioni figurative. In atmosfere in cui l'emozione più era respinta e più vibrata di una coinvolgente vitalità intellettuale. E, in vetta, «Parola e utopia» (2000), su un personaggio realmente esistito, il predicatore gesuita portoghese Antonio Vieira, vissuto nel Seicento e già citato in «No, o la folle gloria del comando». Non una biografia tradizionale ma, ispirandosi, com'è suo costume, a dei testi letterari, prendendo spunto da quei sermoni e da quell'epistolario di Padre Vieira che sono ancora oggi un monumento alla lingua portoghese e che a Fernando Pessoa facevano confessare di piangere di felicità quando ne rileggeva certi passi. Una vita, dunque, ma con le «parole» con cui il personaggio l'aveva attraversata, perseguendo con forza, e nonostante molti contrasti, quella sua «utopia» della liberazione degli Indios del Brasile che solo molti anni più tardi dopo la sua morte sarebbe diventata una realtà. Che si sarebbero ritrovati, con ammirazione o perfino commozione, in tutti gli altri film realizzati nell'ambito del primo decennio di questo secolo. Da «Ritorno a casa» (2001), un ritratto senza ombre della vecchiaia, trasformato quasi in un monumento al silenzio. A «Un film parlato» (2003) dove, al contrario, la parola, sublimata dai modi più puri del cinema, consentiva di affrontare, con lirica levità, i temi più significativi di oggi, non ultimo il terrorismo. Non dimenticando, fra gli altri, «Il Quinto Impero» (2004), un testo teatrale sul mitico Sebastiano, Re in Portogallo nel Cinquecento, affidato a una sottile dinamica cinematografica grazie ad immagini buie da cui scaturivano, nitide le psicologie dei personaggi. Come in «Specchio magico» (2005), di nuovo da un romanzo della fidata Agustina Bessa-Luís, in cui si visualizzavano addirittura gli stati d'animo, con una luminosità che sapeva accostare il reale all'immaginato. Per concludere, dopo quel «Cristovao Colombo o Enigma» visto a Venezia nel 2007, con il cortometraggio «Dal visibile all'invisibile» con cui abbiamo celebrato, con gratitudine, i suoi 100 anni di età. Luminosi e fecondi.

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