La bacchetta di Muti conquista la platea dell'Opera con l'«Otello» di Verdi
Quello di cui troppo spesso traboccano le cronache e di cui facciamo fatica a renderci ragione. Ma all'Opera di Roma, con un solo giorno di anticipo sulla sempre attesa inaugurazione scaligera di S. Ambrogio (guarda caso con un'altra opera coeva di Verdi) quasi come una sfida ravvicinata, i motivi di interesse erano anche altri, non meno storici. Come la presenza per la prima volta sul podio dell'orchestra capitolina di Riccardo Muti, che con l'Opera di Roma ha allacciato un rapporto di collaborazioni che lo porterà nella Città eterna per ben quattro stagioni consecutive, e il ritorno a Roma dell'Otello, opera per tutti impervia, dopo ben quaranta anni. Come dire che per gran parte di orchestra e coro l'opera poteva suonare come nuova di zecca. E tale è stata grazie innanzitutto la straordinaria e fortemente chiaroscurata lettura di Muti, iridescente con bordate sonore estremamente moderne nei gangli della vicenda con il crescente avviluppamento della trappola mortale di Jago stretta come un nodo scorsoio attorno al collo dell'intemerato condottiero moro. Una lettura piena di sinistri bagliori che ha esaltato la modernità dell'opera senza farla mai scadere in bolsa retorica verista ed ha esaltato le potenzialità delle masse orchestrali e corali del teatro (si pensi all'uragano iniziale con l'arrivo di Otello vittorioso ed esultante dopo il temuto naufragio). Non era forse proprio l'ideale l'allestimento scenografico, quello del prestigioso Festival di Salisburgo, praticamente una claustrofobica scena unica con un cortile di cittadella fortificata con parapetti e finestre (utili per mostrare al pubblico la violenza delle onde iniziali o il fuoco dell'incendio). A sopperire alla mancanza di cambi di scena sopperiscono tuttavia, per i momenti di intimità, le ottimamente dosate luci e i separé dietro il sipario, spesso necessario per il gioco di doppiezza e ambiguità della vicenda. Condivisibile la regia del figlio d'arte Stephen Landgridge, non priva tuttavia di una certa staticità. Fondamentale il ruolo del cast vocale con un Aleksandre Antonenko in crescendo nei panni del cangiante protagonista ed uno Jago, ruolo chiave dell'opera e vero deus ex machina registico dell'azione, disegnato dal giovane Giovanni Meoni con la necessaria anonima fisicità ma la fascinosa e camaleontica poliedricità del ruolo. Un poco sotto tono e poco morbida inizialmente la Desdemona di Marina Poplavskaya che si riscatta però nel risolutivo atto finale. Eccellenti coro e orchestra, chiamati ad una prova di orgoglio dinanzi alla blasonata bacchetta. Per il pubblico un trionfo annunciato, che rilancia il Teatro capitolino verso un futuro che si spera più luminoso. L. T.