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Muti, il mio «Otello» con Jago protagonista

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L'allestimento è quello del Festival di Salisburgo (Muti dirigeva in agosto i «Wiener»), capace di dividere la critica internazionale in giudizi ora elogiativi ora meno lusinghieri. A destare qualche sospetto soprattutto la statica regia, la inattesa pedana in plexiglas, la non adeguata maturità vocale del tenore, bisognoso di ulteriori conferme sul campo. Nonostante la poco realistica nomea di un carattere non proprio conciliante, sembra che Muti abbia stregato la talora riottosa orchestra capitolina, proprio come il pifferaio di Hamelin, schiudendo all'Opera di Roma giorni più rosei. A partire dal tutto esaurito registrato per tutte le repliche. Insomma, lo spettacolo dell'anno, proprio il giorno prima della inaugurazione scaligera di S. Ambrogio con l'anch'esso verdiano «Don Carlo». A Roma è riuscito nel miracolo di ipnotizzare e galvanizzare l'orchestra. Quale è il suo segreto? «Non ho un segreto. Sono venuto a Roma con l'idea di fare in 4 anni 4 opere. E sono venuto in un momento della mia vita in cui da anni non dirigo cori e orchestre da me conosciute. Ho ristretto il numero a quelle a me più care, ovvero Vienna, Chicago, New York e la Bayerische Rundfunk. Ora divento direttore dell'Orchestra di Chicago con cui spero di fare cose soddisfacenti. La proposta di Roma è giunta insolita da parte di Veltroni che mi ha chiesto un aiuto per le sorti culturali della città. Ho così accettato questa nuova ed insolita esperienza. Sono venuto a Roma e ho fatto il mio lavoro con atteggiamento di chi ha un compito artistico da conseguire. Vi ho trovati un atteggiamento di rispetto e collaborazione trasmutatosi in simpatia reciproca. Ed ho lavorato in assoluta armonia. I complessi artistici del Teatro non solo hanno notevoli qualità ma possono anche conseguire risultati eccellenti. È vero che non amo i mediocri e i lavativi». Perché ha scelto «Otello» per iniziare questa sua collaborazione con l'Opera di Roma? «Prima pensavo di fare "Ernani", poi a Salisburgo ho pensato a "Otello" quando ho trovato il tenore e il soprano giusti per il ruolo. È importante questa collaborazione tra Salisburgo e Roma: è necessario scambiare idee e cast tra teatri perché non siano cattedrali isolate nel deserto». Quale è la sua chiave di lettura del capolavoro verdiano? Quale la scena saliente? «Sono stato il primo alla fine degli anni '70 a Firenze ad eseguire il finale del III atto della seconda e ultima versione, Verdi non era contento del finale che solitamente si esegue. Quando dovette rappresentare l'opera a Parigi nel 1894 cambiò il finale riscritto tutto in funzione di Jago. Qui Jago continua a declamare ed è protagonista sino in fondo». Quali suggestioni vengono dalla regia? «All'Opera acquisterà valore maggiore la scenografia perché il palcoscenico ha dimensioni più umane e non è una piazza d'armi come quello di Salisburgo». Quale è il limite espressivo dell'«Otello» per non sfociare nel verismo? «Molte volte ha sofferto di rtoriche veristiche da parte di alcuni interpreti. Va invece cantata nella sua recitazione. Ci sono molti effetti che Verdi desidera dalle voci come già in "Machbet": spinge certe situazione sino alla soglia dell'espressionismo, ma rimane un'opera di canto da parte anche del protagonista». Come vive il momento dela musica in Italia? «Confusione di idee ma se si aprono i teatri e le porte ai giovani verranno i risultati. I teatri-carrozzoni spesso operano solo per sè con il sistema degli eventi. Più di 400 teatri per la maggior parte chiusi. Lo Stato non può essere una madre che allatta molti figli. Bisogna dare ai giovani la possibilità di fare; molte regioni non hanno orchestre e sono assetate di musica. Non è vero che i giovani non sono interessati, noi non insegnamo la musica dalle fondamenta della educazione. Noi italiani abbiamo dato tanto nella storia della musica nel mondo. Ora è come se ci fossimo fermatià. Il teatro è un centro di cultura: noi li teniamo chiusi. Non si può tagliare la cultura». Ed il suo rapporto con la città di Roma? «A Milano davo tutto al Teatro, vi passavo diversi mesi all'anno. Andavo col teatro in giro per il mondo. Ma ho sempre amato Roma. Ho sempre citato Orazio: che il sole non possa vedere nulla di più grande di Roma una città fantastica dove si vive bene circondati dalla bellezza e io sono meridionale». Quale opinione ha della critica? «Ci sono critici intelligenti, altri faziosi e che non capiscono nulla. Ma fortunatamente c'è qualcuno che dimostra di conoscere bene la professione. Il giudizio critico se viene da fonte onesta e intelligente può anche illuminare e correggere un artista. Spesso è stata poco obiettiva o di parte e non preparata. Per cui i giornali danno sempre meno spazio al giudizio critico. Spesso le opinioni sono totalmente contrastanti». Quale idea ha delle moderne regie d'opera? «Anche qui ci sono regie intelligenti e stupide o provocatorie. In Germania si ripetono sempre costumi nazisti per "Nabucco" o "Attila": c'è una specie di moda. Sono cresciuto col concetto di Strehler: tutto nell'arte deve tendere al bello. Spesso si tende al volgare all'orrido e al brutto che non è né antico né moderno. Spesso sono cose estranee al discorso musicale. Non amo neppure i registi tappezzieri superrealistici. Il grande regista con poco riesce a creare un mondo».

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