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De Andrè, amico fragile

Fabrizio De Andrè

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Giulio Cesare Abbadie era un centravanti robusto e dai piedi buoni, faro di quella squadra che in realtà regalò più dispiaceri che gioie ai tifosi della lanterna. Era stato acquistato dall'Uruguay, terra di dribbling e di emigrati liguri del primo Novecento, qualche anno dopo l'arrivo di Ghiggia e Schiaffino, campioni del mondo con la "celeste". Segnava poco Abbadie, ma quando gli riusciva lo stadio esplodeva, incitandolo con il nome di battesimo. Anni dopo, da scalmanato collezionista di figurine, mi capitò di confessare a De Andrè che quel suo calciatore preferito - che il Italia aveva mestamente chiuso la carriera al Lecco - pur non facendo miracoli come "filtrador", era stato una figurina molto rara. Diciamo uno a trenta. Fu un lampo. Bastò quell'ammissione per tagliare fuori tutto il folto gruppo degli attoniti commensali. Via il discorso sull'acustica, chissenefrega dell'ultimo disco, porta pazienza riguardo l'eterna diatriba fra impegnati e non so. Passammo tutta la sera a parlare di Giulio Cesare Abbadie e di altri sud-americani che a più riprese cercarono di raddrizzare le incerte aspettative del Genoa Calcio. Il rammarico di non aver visto giocare con la sua squadra Verdeal, fuoriclasse argentino in forza ai rossoblu negli anni Quaranta, non era inferiore a quello di non aver conosciuto Edgar Lee Master, l'autore di "Spoon River", sua massima influenza letteraria. Era fatto così Fabrizio De Andrè, attaccato alla memoria ma non al punto da diventare cerimonioso nei confronti con del passato. In fondo, il film in uscita domani, «Amore che vieni, amore che vai» di Daniele Costantini (tratto dal libro che il cantautore pubblicò nel 1997 con Alessandro Gennari, «Un destino ridicolo»), fra papponi, puttane e pastori, altro non è che un viaggio all'interno di tutto ciò che lo affascinava. Intanto è già uscito, presentato al Festival del Cinema di Roma «Effedia - Sulla mia cattiva strada», film della giornalista Teresa Marchesi, a metà strada fra monologhi e canzoni, compresa l'imperdibile «Amico fragile» cantata da Vasco Rossi. Mentre si avvicina il decimo anniversario della sua scomparsa (11 gennaio) arrivano a raffica anche i progetti editoriali: monografie, biografie, discografie ragionate e non, volumi fotografici, rassegne di interviste. Il più originale è «Ballata per Fabrizio De Andrè», un fumetto di Sergio Algozzino. Iniziative da cui sovente prende le distanze Dori Ghezzi, responsabile della Fondazione, e spesso contraria al clamore eccessivo. A proposito di Fondazione, a Genova si discute sullo stanziamento di cinque milioni di euro (che si aggiungono al contributo di seicentomila euro dato dall'allora ministro Rutelli) alla ristrutturazione del cinquecentesco Palazzo Grillo dove avrà sede la Fondazione. L'idea è quella di creare una mostra permanente, con annesso un piccolo albergo, progetto sponsorizzato da illustri personalità genovesi che fanno parte della Fondazione, fra cui l'architetto Renzo Piano. Cinque milioni di euro di cui si discute molto, ma che ovviamente non intaccano il retaggio culturale prima ancora che musicale lasciato dall'artista. Pur nella lunga frequentazione non era sempre facile avere a che fare con Faber. Schivo ma disinibito, "ragazzo di strada" ma appartenente ad una famiglia molto abbiente, con Fabrizio si poteva parlare di tutto, dei suoi vizi e delle sue utopie, dei suoi amori e dei suoi furori, dei suoi momenti lieti e di quelli drammatici, perfino delle sue canzoni. Certo, ad un certo punto si rischiava di non sapere chi si aveva davanti: se l'idolatrato artista del "non mestiere"(come lo definiva lui) o se il tenace agricoltore. Il grande agricoltore, un mestiere che prese molto sul serio fin dall'inizio. Ad un metropolitano incallito e anche un po' intossicato come il sottoscritto, vederlo alle prese, con competenza, con fattori e frantoi, trattori e ruscelli, faceva un po' rabbia. Ad un certo punto l'amicizia rischiò di saltare. Nel 1979 De Andrè pubblicò un album dal vivo con la Premiata Forneria Marconi, frutto del lungo tour effettuato con il gruppo milanese. Un giro di concerti straordinario. Per la prima volta, dopo tante esibizioni in solitudine o accompagnato da musicisti non memorabili, offriva alle sue canzoni una cornice di lusso, di grande prestigio musicale. Se ne accorse subito e il tour fu un grande successo anche grazie all'armonia con il gruppo e al perenne buonumore che regnava fra loro. Quando uscì l'album, ovviamente un long playing, Fabrizio pensò bene di raccogliere le più che positive critiche pubblicate dalla stampa in un vasto collage. C'era anche la mia, a cinque stelle, ma preceduta da un senso di amarezza per quel che l'artista aveva fatto qualche mese prima, quando aveva accettato un ricco ingaggio alla "Bussola" di Sergio Bernardini, tempio della "grassa borghesia", semplicemente perché aveva bisogno di denaro per i suoi investimenti in Sardegna. Anatema! Scandalo! Negli anni Settanta si litigava anche per questo. Oggi nessuno si stupisce più di nulla, calcolo e cinismo regnano sovrani, ma francamente ci rimasi male, come pure, almeno credo, migliaia di suoi sostenitori. Lui rimase male dalla mia critica, ma io ancor più di lui, quando notai che il collage di copertina lasciava gli elogi, ma copriva, con un altro articolo, il perfido capoverso. A raccontarla oggi scappa un po' da ridere, e del resto lui, anarchico borghese assetato di "mauvaise reputation" come il suo Brassens, aveva insegnato a tutti noi a pensare senza mai salire in cattedra. Le sue canzoni, che già all'epoca dovevano tener conto di un ricambio di pubblico più sensibile al linguaggio visivo-musicale ma già refrattario alla lettura, hanno sempre conciliato mirabilmente il desiderio di evasione con lo strumento di comunicazione sociale, parlando d'amore ma entrando nella più umile quotidianità.

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