Gramsci, gli scritti e la truffa del Pci. Agli eredi solo 9 milioni di lire l'anno

Il merito di aver sollevato la questione spetta al compianto Antonio Santucci e alla casa editrice Sellerio, visto che è proprio la contesa giudiziaria con la casa palermitana ad aprire un sia pur tardivo varco ai diritti denegati.La Sellerio, nel 1996, pubblica infatti le "Lettere" in due volumi, a cura di Santucci.  Giulio Einaudi, venuto a conoscenza dell'edizione, parla addirittura di «scippo» da parte della Sellerio. E volano altre parole forti, senza che nessuno ricordi che lo «scippo», in verità, l'avevano patito, e dal 1937, solo i Gramsci-Schucht. Vittorio Bo, direttore editoriale dello Struzzo, ignorando l'esproprio da tempo consumato, si dice sicuro che la Fondazione sia l'unica titolare dei diritti. Elvira Sellerio riceve, inoltre, via fax parole di sarcasmo da parte di Bo: «Mi auguro, signora, che il suo sia soltanto un sogno, un desiderio, non un progetto reale». La stessa Sellerio si limita a precisare che, in ogni caso, i diritti sarebbero scaduti. Nello stesso gennaio 1996, Giuseppe Vacca annuncia solennemente di voler procedere nei confronti della casa editrice palermitana. I sedicenti detentori richiedono addirittura il sequestro dei due volumi curati da Santucci. A questo punto, l'avvocato Giovanna Cau, difensore della Sellerio, mette il dito nella piaga, toccando la questione dei diritti. Perché mai il possesso materiale degli scritti dovrebbe equivalere alla titolarità dei diritti? «Succede che i diritti di Gramsci appartengono all'Istituto Gramsci» insiste Vacca, pur sapendo che non è così.Elvira Sellerio che ormai ha capito la situazione replica: «I diritti di Gramsci di proprietà dell'omonima Fondazione? Non è vero. Non risulta da nessuna parte che la proprietà letteraria dell'intellettuale sardo sia stata legalmente ceduta dagli eredi all'Istituto». Nel maggio 1996, l'ordinanza del tribunale di Palermo dà torto a Vacca e ragione a Sellerio, respingendo la richiesta di sequestro delle «Lettere» curate da Santucci. Per la Fondazione Gramsci è una botta, visto che ormai è di dominio pubblico il fatto che ha acriticamente ereditato e ratificato l'esproprio togliattiano. Comunque, mentre il procedimento è in corso, c'è grande agitazione per impedire la sigla di un contratto tra gli eredi Gramsci e la Sellerio. Antonio Gramsci junior ha dichiarato: «Sellerio ci offrì circa ventimila dollari per il copyright delle "Lettere". Noi avevamo intenzione di accettare, ma poi intervenne l'Istituto Gramsci: ci dissero che Sellerio stava commettendo una scorrettezza e ci chiesero di concludere un accordo per la ripartizione dei diritti d'autore». Grazie a Sellerio, finalmente la Fondazione si ricorda di dover qualcosa a Giuliano, alla vedova di Delio e alle sue figlie, Renata e Nadia. Si arriva, così, in fretta e furia, a una cessione a favore della Fondazione. Per sicurezza o cattiva coscienza è richiesta anche un'assoluzione retroattiva, secondo la quale i detentori degli scritti di Antonio si sarebbero, fin lì, comportati correttamente. Fatto è che, correttezza o no, fino a quell'anno gli eredi non videro mai una lira. «Io non ho mai ricevuto una lira», confessa Giuliano a Simonetta Fiori proprio nel 1996. Alla fine, nonostante la sconfitta in Tribunale, la Fondazione emetterà il seguente comunicato: «Riferendo del procedimento dell'editore Einaudi e della Fondazione Istituto Gramsci contro l'editrice Sellerio, mercoledì 1° maggio alcuni organi di stampa hanno scritto che la Fondazione non disporrebbe del copyright degli scritti di Antonio Gramsci. La notizia è del tutto falsa. Al fine di agevolare la diffusione di informazioni corrette in proposito, la Fondazione rende nota la dichiarazione, sottoscritta dagli eredi di Gramsci, sia per il passato, sia per il presente e l'avvenire». Vale rammentare, in margine, che «l'Unità» ha correttamente dato conto tanto dell'esistenza della dichiarazione degli eredi di Gramsci quanto della scelta del Tribunale di non considerarla prova valida poiché sottoscritta soltanto dopo l'avvio del procedimento da parte della Fondazione stessa. (....) Dall'ordinanza dell'aprile 1996 e dalla transazione viene fuori la verità: Togliatti, Pci, Istituto, quindi Fondazione Gramsci, Einaudi, Editori Riuniti e quant'altri non avevano avuto sino ad allora la proprietà, per così dire, legale degli scritti di Gramsci. Togliatti se n'era appropriato, punto e basta. I media comunisti in fibrillazione, per deviare l'attenzione dall'esproprio implicitamente riconosciuto mettono in bocca a Giuliano Gramsci espressioni incongrue: «Nessuno dell'Einaudi si è mai fatto sentire». No, non è l'Einaudi che avrebbe dovuto farsi sentire, dato che l'editrice torinese pubblicò sempre su concessione del Partito comunista prima, e poi dell'Istituto Gramsci. A completamento del depistaggio, si dà a credere che Giuliano si sia deciso a rivendicare i suoi diritti solo adesso, visto che l'Einaudi è passata al nemico del popolo, Silvio Berlusconi: «Mi sembra paradossale che i diritti di mio padre vadano nelle tasche di quel signore». Nessuno sente il dovere di obiettare che Berlusconi non c'entra nulla e che la concessione a Einaudi fu rilasciata da altri, i quali non avevano titolo per concedere alcunché. In ogni caso, un fatto è certo: i proventi delle opere di Gramsci sono finiti per cinquant'anni nelle tasche del pci. Nell'aprile 1996, come s'è visto, mentre è ancora in corso la lite Einaudi-Sellerio, Vacca propone una transazione. (...) La somma di 45 milioni sarebbe stata corrispondente al 50% degli utili della Fondazione negli ultimi due lustri, come a dire che le edizioni di Gramsci in tutto il pianeta avrebbero fruttato 90 milioni di lire in dieci anni, una media di 9 milioni all'anno per uno degli autori più letti del mondo.