Lì dove il mare luccica e tira forte il vento, Dalla va a ...
«E ci saranno due inediti di fresco conio», racconta il cantautore. «Il progetto è nato dopo l'inaspettato successo di "Nuvolari" nello spot dell'Alfa Romeo. Roversi è per me come un padre. Da lui ho imparato tutto». Non solo. Cullato dalle onde, come un contemplativo eroe conradiano, Lucio ha scritto le musiche per il prossimo film di Pupi Avati. «Si chiamerà qualcosa come "Gli amici del Bar Margherita", e racconta di un luogo e di un tempo in cui ero ragazzino e cominciava la mia storia di musicista, proprio nel gruppo di Avati. Una storia ambientata tra il '54 e il '57». Gli anni in cui la tv cominciava a togliere sonno e sogni agli italiani. «Una storia al ribasso, quella della televisione. Oggi è deprimente. Rispetto i colleghi che vanno in video per promuovere i cd, ma a me non interessa. Di fronte alla routine, al già visto, alziamo la pietra e guardiamo cosa c'è sotto. Proviamo a spostarla». Servono idee nuove. «Sono affascinato dalle cose che non faccio, non da quelle di cui ho esperienza. Giorni fa ero ad Assisi, c'era quest'orchestra da camera che musicava un reading delle poesie di Alda Merini recitate da Marco Alemanno. Io suonavo il clarino, non so cosa ne sia venuto fuori, ma la gente era entusiasta. In primavera, al Maggio Fiorentino, ho curato la regia della Beggar's Opera, con dieci liriche sulla vita di Benvenuto Cellini scritte da lui medesimo. Avevano chiuso il Ponte Vecchio. Una magia». C'è poi quella sua incursione su Stravinskij... «Portammo a Dublino il "Pulcinella": ci avevo aggiunto un prologo musicale e un mio testo. Non credo nell'intoccabilità dell'arte, mi piace contaminare il teatro, la prosa, la lirica». Se un giorno "profanassero" le sue canzoni? «Ne sarei felice. Penso alla struttura di San Giovanni agli Eremiti, a Palermo. Nei secoli è stato tempio greco, poi paleocristiano, arabo. È stato toccato dal Barocco. La coscienza artistica, così come quella spirituale, si forma per accumulo e contrapposizione. Georg Simmel, padre della sociologia, spiegava in questo modo la vitalità delle metropoli. New York l'hanno costruita, con creatività e reciproca aggressività, gli italiani e gli irlandesi». Nel libro "Gli occhi di Lucio", da lei curato insieme a Marco Alemanno, racconta della solitudine creativa di Fellini. «L'artista è sempre solo. Quando Michelangelo dipingeva la Cappella Sistina, doveva allontanare quelli che gli scassavano le balle, anche a costo di faticare il doppio. Anch'io preferisco operare per conto mio, ma di tanto in tanto avverti l'esigenza della condivisione. Accadde ai tempi della mia tournée "Banana Republic", con De Gregori. Noi due così diversi, ma con due teste su un progetto che marciava in sintonia. Con Marco, l'anno scorso, abbiamo fatto più di 120 concerti, e qualcosa documentiamo nel dvd/cd che accompagna il volume. Ci sono le immagini da lui scattate, bellissime. Anch'io ero un buon fotografo, una volta, poi mi sono stancato di limitare la contemplazione a quel che vedi nell'obiettivo. Quando giri per mille città gli occhi e il cuore diventano roventi». Ancora, nel volume descrive "il silenzio di Dio" sul Gargano. La sua anima è un'antenna? «Forse. Ma quel luogo è magico, il suo cielo stellato sin da piccolo inoculava informazioni misteriose nel mio essere». Se Dio fosse un accordo musicale? «È nei rumori della notte, amplificati dallo stato alterato della coscienza. Il fischio lontano di un treno, l'abbaiare dei cani in campagna, le cicale d'estate. Suoni metafisici, quasi. Ma anche le voci ovattate di una tv vista dalla strada, alla sera, la luce azzurrina dello schermo dietro una finestra ai piani alti. Ci immagini il figlio che fa i compiti, la madre che sparecchia, il padre che legge il giornale. La famiglia come nostalgia di un valore in cui credo». Dio la bracca o accoglie? «Mi mette allegria. Dio non è sofferenza. Lo ascolto anche quando mi addormento durante la predica, alla Messa. Mi riservo di avere ulteriori folgorazioni, se non conversioni, fino all'ultimo istante utile». L'ostracismo del Vaticano ai preti gay? «E perché non proibire il sacerdozio ai mancini? O ai balbuzienti? La notizia non è commentabile serenamente. Il problema dell'omosessualità fra i preti è così dirompente che devono prendere questi provvedimenti? Altrimenti è una discriminazione incomprensibile. Si può svolgere la propria funzione nel modo più degno anche senza essere allineati alle posizioni ufficiali. Abbiamo avuto preti straordinari che hanno operato nel nome di Dio e un po' meno in quello della Chiesa». Mai provata la tentazione di indossare la tonaca? «Piuttosto mi sparo in un ginocchio. Un laico ha tante vie per mettersi a disposizione del mondo». Lei ha insegnato nelle università. «A Urbino, per tre anni. E sono rimasto stupito dall'impreparazione degli studenti. Non avevano la curiosità dell'apprendimento. Ben vengano le manifestazioni se sono giustificate da un no a leggi che non ti convincono. Ma i ragazzi dovrebbero mettere la stessa energia con cui protestano nel loro percorso didattico. Se hai voglia di studiare, non ti passa se ti eliminano tre professori». Veltroni o Di Pietro? «Sono amico di Veltroni da anni e lo apprezzo. Di Pietro è un enigma: simpatico, ma di lui non ho capito tante cose. L'errore della sinistra è stato di trattare l'avversario come un parvenu incolto, di rivendicare una superiorità morale che il mondo non le garantisce più. Tutto cambia attorno a noi, più velocemente di quanto non riusciamo a comprendere. Non siamo in uno stagno puzzolente e fermo. Le idee fluttuano come un mare in tempesta».