Roma ha venduto l'anima ai cartelloni pubblicitari

E la vivibilità è senza dubbio il presupposto per una convivenza più civile, meno brutale, possibilmente non condizionata dalla volgarità che è la vera cifra della modernità, con buona pace dei permissivisti per i quali qualsivoglia espressione, pubblica e privata, sarebbe annoverabile in un catalogo culturale, comprese le estensioni rabbiose di coloro che si autorappresentano devastando ed imbrattando. Ai sindaci, in particolare a quelli dotati di ambizioni pari alle esigenze che sono chiamati a fronteggiare, si chiede, insomma, di restituire alle città ciò di cui sono state spogliate: la loro anima. Che non è un modo retorico per dire di rimetterle a posto, di provvedere al loro decoro, di innovarle nelle strutture architettoniche, ma proprio di preservarle facendole respirare. Nell'unico modo possibile: liberandole dalle proiezioni del mercatismo selvaggio che le ha invase e le nasconde agli occhi del fruitore attento, come del distratto passante e perfino a chi non riconoscendone il profilo non si pone neppure il problema se deve o non deve rispettarle. Roma, tanto per non andare troppo lontani, da tempo immemorabile ha eclissato la sua disarmonica eppur suggestiva complessità perché la prevalenza della pubblicità (autorizzata naturalmente) la cela allo sguardo di chi vorrebbe goderne le suggestioni affioranti da tutti gli angoli, dalle viuzze più nascoste, dai parchi e dai giardinetti, dalle piazzette non soltanto invase da automobili e da cassonetti dell'immondizia. Si ha come l'impressione che dietro i tabelloni invasivi si nasconda qualcosa di imperdibile e, magari, quando lo si scopre non procura lo stesso effetto estetico se fosse libero di respirare, appunto, nell'ambito del complesso in cui ha vissuto per secoli, familiarizzandosi con i residenti e con i passanti, presente addirittura come soggetto caratterizzante il luogo, alla stessa maniera di come può esserlo un mobile o un quadro in una casa. Ci chiediamo se la pubblicità talvolta invece di essere una risorsa, sia uno scandaloso monumento all'aridità dei nostri tempi. E spesso ci accade di concludere in questo secondo senso. Inevitabilmente, poiché se il bisogno di rendere visibile il prodotto propagandato è assolutamente comprensibile, è altrettanto comprensibile (e prioritario, a nostro avviso) dare ai cittadini, ai turisti, agli occasionali avventori quel che nessuno può trafugare: l'identità rappresentata dai segni del tempo che come graffiti spirituali, materializzatisi sotto le mani di artisti e artigiani, raccontano la lunga vicenda di un popolo, la sua avventura nella storia della città. E quale pubblicità dovrebbe avere il potere di limitare l'armonia del tutto, anche minimamente, in ossequio alle esigenze dettate dalla persuasione mediatica che deve indurre al consumo, all'acquisto, alla sacralizzazione dell'effimero? Nelle grandi come nelle piccole città europee, soprattutto in quelle cariche di memorie (ma non ce n'è una che ne abbia più di quelle italiane), non ho mai visto in una piazza o in un giardino un affollamento tale di cartelloni (per non parlare dei manifesti abusivi) da togliere la prospettiva e dunque la possibilità addirittura dell'innamoramento all'osservatore di un sito particolarmente suggestivo. Perfino i piccoli parchi a Parigi, tanto per fare un esempio, dopo le sette di sera vengono chiusi al pubblico, in pieno centro naturalmente, e sarebbe impensabile a Place des Vosges o a Place Vandome o sul viale che conduce alla spianata degli Invalidi un'abbondanza di cartelloni tale da impedire la visuale e a deturpare gli spazi, a restringerli, a nullificarli; e sarebbe fare un torto imperdonabile a George-Eugène Haussmann, il grande pianificatore di Napoleone III, nascondendo la prospettiva dei suoi boulevards dietro autentiche muraglie pubblicitarie. Lo stesso si può dire per la Berlino moderna dove la Unter den Linden "respira" come agli inizi del Novecento o la vecchia Londra le cui piazze non risentono della pubblicità mai invadente della quale pure usufruiscono in forme, potrei dire, "artistiche" e quasi parti integranti del "paesaggio" circostante che in alcun modo pretendono di nascondere. Insomma, la città per essere rispettata deve incutere timore. E dal timore all'amore, il passo può essere breve, almeno si spera. Dunque, facciamo adottare alle grandi aziende i siti che nascondono con le loro pubblicità, restituendo alle stesse evidenza e visibilità in modi più consoni ed acconci, da studiare in maniera che ottengano più o meno gli stessi risultati senza nulla togliere alla bellezza, la sola cosa di cui vorremmo non dover fare a meno in tempi che saranno segnati da altre gravose privazioni. Vorremmo essere, come cittadini, con l'aiuto dei sindaci e degli amministratori, i custodi stessi della bellezza, quasi moderni "sacerdoti" in qualche modo che vorrebbero trasmettere segni di eternità come per vincere la caducità dell'esistenza. È stato così del resto, almeno fino a quando la modernità non ci ha imposto i suoi rituali barbari che ci hanno ridotto a mendicare perfino la pietà per le pietre che abbiamo ereditato.