«Non credo che mi voglia male. Ma ho l'impressione che ...
Mi disse: "Ci dovremmo vedere più spesso". Gli risposi: "Abito a Roma. Quando vuole mi trova". Prima che Berlusconi ci tornasse nel 2008, sono stato invitato da lui a palazzo Chigi una sola volta, con il premier cinese, che mi ringraziò perché nel 1991 con la mia visita in Cina ruppi l'embargo che la circondava. Allora ero io il presidente del Consiglio...». Il racconto che Andreotti fa della sua consuetudine con il Cavaliere non trasmette propriamente ondate di calore; semmai, lascia indovinare qualche brivido di distanza. Infilza qualsiasi sospetto di alleanza, vicinanza, complicità. Riduce le loro rare frequentazioni a un fatto di pura cortesia: al massimo, di convergenza di interessi. Tende a dimostrare che, se pure esiste, si tratta di una sintonia contingente, guardinga, e sempre misurata su distanze concettuali, prima che politiche, riferibili non ad alleati o avversari, ma ad abitanti di pianeti diversi. Perfino della corsa per la presidenza del Senato nella primavera del 2006, come candidato dell'allora Casa delle libertà, il senatore a vita parla con distacco, quasi piccato, e non solo per la sconfitta. «Ricordo che quando partì la candidatura, prima mi ha chiamato Pier Ferdinando Casini. Poi Casini con Berlusconi, che mi annunciò: "Le mando Gianni Letta così le spiega...". Poi non l'ho più sentito». In realtà, l'assenza di contatti non è stata così totale. Si sono visti e incontrati altre volte: in un'occasione, nell'agosto 2007, Andreotti l'ha intervistato cordialmente per la rivista «DiPiù». E Berlusconi gli ha dato atto di essere stato uno dei pochi senatori a vita che nell'aula di palazzo Madama ha sempre votato con la propria testa, e non per salvare la maggioranza al lumicino di Romano Prodi. Ma il macigno che impedisce loro di capirsi, di stringere un vero patto di non belligeranza, se non di alleanza, è più pesante di qualunque solidarietà da ex imputati; e più resistente di ogni strategia o volontà di dialogo. Andreotti è il simbolo della Prima Repubblica; anzi, della Repubblica del 1946, «perché l'espressione "Prima Repubblica" non mi piace», ha scritto più volte nella sua rubrica sul quotidiano «Il Tempo», in risposta a un lettore. Berlusconi, invece, simboleggia la Seconda, plasmata da lui e cresciuta ed entrata in crisi con lui. Anche senza volerlo, la coincidenza tra la fine della carriera politica andreottiana e l'alba del berlusconismo è troppo immediata per non suscitare un'idiosincrasia di pelle nel figlioccio degasperiano. In fondo, all'inizio di Mani pulite molti dei futuri alleati del centrodestra, dalla Lega all'allora Msi, si spellavano le mani facendo il tifo per la magistratura milanese. E anche le Tv e i giornali del Cavaliere approvavano quella promessa di catarsi dai contorni come minimo ambigui. Il fatto che il vuoto creato dalla Dc e dal Psi sia stato riempito alla fine soprattutto da FI e poi dal Pdl, suggerisce interpretazioni controverse. Ma, oggettivamente, è difficile ignorare che almeno all'inizio Berlusconi è stato uno dei beneficiari di quella strana rivoluzione dall'alto. E agli occhi di Andreotti rappresenta un piccolo ma imperdonabile peccato originale. Bastava che negli anni dei suoi processi qualcuno gli chiedesse del Cavaliere, e ricompariva la ruga. «Una ruga che si era improvvisamente formata sul suo zigomo quasi sotto gli occhi, e che segnava il confine invisibile tra le sue due vite, prima e dopo lo spacco» dei processi, ha ricordato Giulia Bongiorno nel suo libro «Nient'altro che la verità». Ma c'è soprattutto un modo diverso di concepire la politica. Il Cavaliere incarna molto di ciò che il «divo Giulio» ha sempre detestato. Il «dilettante» che si vanta di esserlo, e che pretende di diventare un personaggio pubblico e di prendere voti; e ci riesce pure, ereditando il grosso dell'elettorato democristiano. Un leader sognatore, smargiasso, ricco e autocompiaciuto di esserlo, che calamita spezzoni del moderatismo scudocrociato e cattolico, facendo strame della cultura pauperista di una certa Dc. Ancora, è il barzellettiere che fa il galante con le signore, meglio se molto più giovani di lui. Se le fa sedere sulle ginocchia, le lusinga platealmente facendo arrabbiare la moglie. Non disdegna le battute pesanti. Scherzosamente, ma non troppo, è tentato di paragonarsi a Gesù. Ostenta un gallismo all'italiana che lo porta a rivendicare prestazioni sessuali da record. E ha un'idea della politica e della leadership che è il contrario della collegialità democristiana...... Per questo, Andreotti non sopporta per esempio la tendenza di Berlusconi a paragonarsi ad Alcide De Gasperi. Quando una volta il giornalista Sergio Zavoli gli chiese se fosse vero che lui era stato per De Gasperi quello che Gianni Letta era per Berlusconi, ha reagito gelido: «Le comparazioni storiche sono sempre difficili. De Gasperi era molto religioso. Il suo libro prediletto era "L'imitazione di Cristo" e soprattutto è sempre stato un uomo politico. Berlusconi invece fa fatica a capire che la politica è qualcosa di cui tenere conto». Altro che De Gasperi: quando deve paragonare il Cavaliere a qualcuno, Andreotti sceglie raffronti caustici. «Mi ricorda Achille Lauro» è solito dire. «Una volta che andammo a parlargli affinché sostenesse l'ultimo governo De Gasperi, a un tratto Lauro ci interruppe ed esplose: "Ma come si fa a dire che De Gasperi è un grand'uomo! A settant'anni non ha neppure una lira!…". Questo era Lauro.» Non perdona a Berlusconi «di non avere ancora capito che, dopo quindici anni, anche lui fa politica. E purtroppo non so se lo capirà più...». Quando si sono visti a pranzo, alla fine del 2007, a un certo punto il Cavaliere ha accennato a una persona bollandola con disprezzo: «Ma quello ha fatto sempre e solo politica!». «Veramente, pure io» gli ha replicato il senatore a vita. Ed era il suo modo di difendere la propria identità e quella di una classe dirigente del passato. La politica è un'arte. Non la si confonda con il lavoro, titolò una delle sue rubriche sul «Tempo» il 17 febbraio 2008. Ma l'ironia nascondeva una stoccata. Rispondendo a Michele Pugliese, Andreotti ricordava che «nella sterile filosofia fascista si demonizzava la politica contrapponendola al lavoro. Ma alla fine del conto relativo si è visto come fosse mostruosa questa aridità».