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7 ottobre, la storia dimenticata dei carabinieri deportati nei lager

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Altri furono addirittura richiamati dal servizio. L'indomani mattina, 7 ottobre, alle 7,15, furono tutti riuniti nella mensa. Annotò nel suo diario il maresciallo Sabatini, scrivano alla Legione Lazio: i militi «apprendono lì che si dovevano versare le armi, per poi essere messi in libertà. Mentre avviene il versamento, militari tedeschi armati di armi automatiche entrano in caserma, ispezionano tutto, bloccano le porte d'uscita». Poi vengono fatti salire su vagoni piombati fermi alle stazioni di Ostiense e di Trastevere. I convogli partono per la Francia, la meta è la Germania. Altri, gli ufficiali, vengono portati in Polonia. A Deblin, a Csestokova. È una pagina di storia dimenticata dell'occupazione nazista a Roma. È la deportazione nei lager tedeschi dei militi dell'Arma. Precede di nove giorni la razzia nel Ghetto della Capitale, quando furono presi 1.024 ebrei. E il 16 ottobre, nella cerimonia per i 65 anni di quella retata, verranno ricordati anche loro al Portico d'Ottavia. Un altro tassello del terrore nella città lasciata a se stessa che esce dopo sessanta anni dagli Archivi storici dell'Arma, grazie all'accesso a documenti non più secretati. Ha studiato quelle carte, insieme con altre dai fondi tedeschi e alleati, Anna Maria Casavola, collaboratrice dell'Anei (l'associazione degli ex militari deportati) e del Museo Storico della Liberazione di Via Tasso. Le ha unite a testimonianze dirette di giovani allievi, sottufficiali, ufficiali di carriera, recuperate in anni di ricerche. Ne è scaturito un libro per le Edizioni Studium, «Sette ottobre 1943. La deportazione dei Carabinieri romani nei lagher nazisti». Non tutti i contorni della vicenda sono ancora chiari. Prima di tutto quanti uomini furono presi. Spiega la Casavola: «C'è incertezza: 2500? 2.000? 1.500? Certo, avrebbero dovuto essere molti di più, ma la notizia, trapelata all'esterno quella mattina del 7 ottobre, permise alla maggior parte di loro di mettersi in salvo». Perché l'internamento degli uomini con la fiamma sul cappello? «Eravamo un ingrombro, un ostacolo per i nazifascisti, eravamo testimoni da eliminare, eravamo l'unica protezione per le popolazioni avvilite e stanche e decisero di disfarsi di noi», scrisse il maggiore dei carabinieri Alfredo Vestuti. I militi costituivano un patrimonio di forza addestrata, di conoscenza investigativa, di capacità organizzativa, ma, per la loro lealtà istituzionale, non apparivano affidabili alle SS. E poi «a Napoli avevano combattuto a fianco della popolazione contro i tedeschi«, ricorda la Casavola. E, al pari degli altri 600 mila militari italiani, non ascoltarono le lusinghe di quanti li invitavano ad arruolarsi nella Rsi. Più di tutti, diffidava di loro il comandante tedesco Herbert Kappler. «Dai messaggi decodificati da Ultra, il megacomputer inglese, riguardo al traffico telegrafico di Kappler - spiega Casavola - emerge che il colonnello delle Ss aveva preteso che prima della deportazione degli ebrei romani fosse neutralizzata l'Arma dei carabinieri, considerata inaffidabile». Gli altri nemici erano i fascisti. L'ordine di disarmo e di arresto fu firmato dal maresciallo d'Italia Rodoldo Graziani, divenuto ministro della Difesa con la costituzione della Repubblica Sociale Italiana. E fu eseguito dal generale di brigata Cosimo Delfini, processato nel dopoguerra. «Insomma, un golpe fascista all'interno della stessa Arma dei CC ai danni dell'elemento più antitedesco e più fedele al re o meglio all'idea dello Stato Legittimo», chiosa la studiosa. Fu Delfini ad affermare che i deportati ammontarono a 1.500. Ma per un altro alto ufficiale, il generale Caruso, il numero deve salire a duemila. Mentre le fonti tedesche, come i fondi della Wermatch, parlano di 2500 prigionieri. Quanti morirono nei lager? Per l'Arma dei Carabinieri dalla Germania non tornarono in 620. Ma storie irrisolte s'intrecciano. Come quel ragazzo in divisa che riuscì a fuggire e che bussò alla porta della partigiana Carla Capponi. «Ci chiese di ospitarlo almeno per una notte - narrò nel suo libro Cuore di Donna - e di conservargli di tutta la divisa solo il kepì. "Lo potete nascondere? Lo verrò a riprendere quando tutto questo sarà finito". Dopo la guerra non è più tornato».

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