John McCain, l'eroe di guerra a un passo dalla Casa Bianca
L'incubo iniziò a metà di giugno del 1968. Lo portarono in quella che alla prigione Hanoi Hilton chiamavano "The Big House", una sala da ricevimenti dove di solito venivano accolti i giornalisti o le delegazioni di pacifisti in arrivo dall'America per testimoniare la loro contrarietà alla guerra e la solidarietà ad Hanoi. Al centro dello stanzone un sofà e sedie imbottite intorno a un tavolo sul quale, tra biscotti e sigarette, fumava una teiera. Davanti a McCain c'era di nuovo Il Gatto, comandante di tutti i campi di prigionia, accompagnato da quello che si spacciava per il suo interprete, noto nel campo come il Coniglio, in realtà un navigato torturatore che amava il suo lavoro. Dopo qualche convenevole, Il Gatto sparò la domanda: "Vuoi andare a casa?". Era talmente grossa che McCain rimase in un lungo silenzio imbambolato, finendo per rispondere solo che ci doveva pensare. Rientrò nella cella con la testa zeppa di pensieri. Fisicamente non era certo un fiore: aveva le braccia troppo deboli per riuscire a prendere qualcosa, la dissenteria lo stava spolpando, le ferite erano state curate solo il tanto che bastava per non farlo morire. Era allettante il pensiero di rivedere la moglie e i figli e gettarsi alle spalle quel viaggio angoscioso iniziato tra le acque del lago. Eppure sapeva di non potere accettare. Da una parte il suo rilascio sarebbe stata una mossa di propaganda per infamare il padre ammiraglio. Dall'altra un'occasione per i nordvietnamiti di dimostrare umanità e insieme stroncare il morale ai compagni che rimanevano: The Crown Prince va a casa, chissenefrega di voi soldatini che rimanete, quindi cercate di collaborare. Ma soprattutto c'era il codice. Dopo la guerra in Corea, le forze armate avevano stilato il "Codice di Comportamento per gli Americani Prigionieri di Guerra", che all'articolo III recita: "..non accetterò né libertà, né trattamenti speciali dal nemico". Tradotto: si accetta la libertà solo in ordine di data di cattura. Per il codice non spettava a McCain tornare a casa, ma al primo americano catturato, il biglietto per quel volo doveva essere del tenente Everett Alvarez, abbattuto il 5 agosto del 1964. Così alcuni giorni dopo McCain tornò dal Gatto per dare la sua risposta: "No, non voglio essere liberato, perché è contro il codice". Sorpreso, Il Gatto non mollò: "Il presidente Johnson in persona ha ordinato che tu venga liberato". "Mostrami l'ordine", replicò McCain. Il Gatto rilanciò con una lettera di Carol in cui la moglie aveva scritto il suo rimpianto per non aver visto John liberato come era successo a Overly. Ma ormai per McCain la decisione era presa. A nulla sarebbero valsi quello e due colloqui successivi con il Gatto e il Coniglio. Era irremovibile. Il 4 luglio, nel giorno in cui l'ammiraglio John McCain II prendeva il comando di tutte le forze americane nel Pacifico, suo figlio affrontava l'ultimo colloquio. Il Gatto dietro la scrivania aveva un'aria solenne. Il Coniglio chiese quale fosse la risposta definitiva di McCain. "La mia risposta definitiva è no". Il Gatto, paonazzo dalla rabbia, spezzò in due la penna che teneva tra le mani, facendo schizzare l'inchiostro sulla rivista sopra il tavolo. Prendendo a calci la sedia urlò a McCain (in perfetto inglese) che avevano fatto male a sopravvalutarlo, poi uscì. Dopo un attimo di silenzio, gelido, il Coniglio sentenziò: "Ora per te sarà molto brutto". Non si sbagliava. (…)Per quattro giorni, ogni due o tre ore, le guardie si davano il turno per pestarlo. A lasciargli i lividi di blu più intenso ci pensava "The Prick", Il Cazzone, il peggior picchiatore del campo. Costole rotte, denti spaccati e il braccio destro di nuovo fratturato. McCain riposava tra una sessione di torture e l'altra, steso sul pavimento, consumato dalla dissenteria, il morale a pezzi. Al quarto giorno toccò il fondo. Guardò la finestra della cella sopra la sua testa, poi il piccolo sgabello da tortura nella stanza. Con enorme fatica si tolse la maglietta, la arrotolò fino a farne una corda, strinse quella specie di cappio improvvisato intorno al collo, poi, appoggiandosi al muro per reggersi in piedi, iniziò a collegare l'altro capo alle sbarre. Non era esattamente convinto del suicidio, ma eseguiva i movimenti meccanicamente, un automa che nemmeno avvertiva l'assenza di un'alternativa. In quel momento il Cazzone scorse la maglietta attraverso la finestra, fece irruzione nella cella, lo spinse a terra e lo pestò. Per i giorni successivi lo sorvegliarono a vista, nel timore che il prezioso Crown Prince tentasse ancora di farla finita. Dopo un ancor più esile tentativo di suicidio, McCain si arrese: "Ok, scriverò per loro", si disse. Nella stanza degli interrogatori, dopo ore di trattativa, McCain firmò un foglio in cui diceva di essere un criminale di guerra, un pirata dell'aria e in cui ringraziava il popolo vietnamita per avergli salvato al vita. In realtà a salvargli la vita fu probabilmente quella firma, per un po' gli diedero respiro. Certo le torture non sarebbero terminate almeno fino all'agosto del 1969. Un anno di colpi, di corde, di ferite, ma il peggio ormai era passato e lui avrebbe resistito alle richieste di un'altra "confessione". Ma quella firma è ancora oggi per McCain una macchia che si accetta, ma non si cancella. In soli quattro giorni McCain era passato dalla gloria all'infamia. Da eroe aveva detto volontariamente no alla libertà, un gesto su cui ancora oggi si poggia la sua mistica di uomo di ferro. Aveva detto no alla fine delle sofferenze per rispettare il codice, la sua parola, suo padre, i suoi compagni. Quattro giorni dopo aveva svergognato la sua Nazione. (…)John McCain era semplicemente tagliato fuori. Per lui il Sessantotto è l'anno in cui inizia l'isolamento, l'anno dell'eroico rifiuto della libertà, della confessione della vergogna, della Piantagione e delle torture. Niente rivoluzione culturale, niente contestazione. Il suo maggio parigino è il Natale dei "vaffanculo", quando manda all'aria a forza di parolacce e gestacci il tentativo dei vietnamiti di filmare una funzione per dimostrare l'umanità con cui venivano trattati i prigionieri. Per lui il '68 è la musica vietnamita sparata a tutto volume dagli altoparlanti del campo, mentre nelle classifiche americane "Hey Jude" dei Beatles precede "What a wonderful world" di Louis Armstrong, "The dock of the bay" di Otis Redding e "Jumpin' Jack flash" degli Stones. John McCain era incontrovertibilmente tagliato fuori.